Attualità

Come fare rivoluzione in buona compagnia, ovvero il teatro secondo Kepler452

By 27 Novembre 2018 No Comments

di Silvia Napoli

Non dev’essere un caso se incontriamo Nicola Borghesi, performer e regista di Kepler452, nell’imminenza della ripresa del Giardino dei ciliegi, spettacolo rivelazione della scorsa stagione teatrale bolognese, perché un tratto da letteratura russa aleggia già nella persona che mi plana svolazzando in bici davanti a un caffè. I modi di Nicola sono pacati e febbrili nello stesso tempo, come si conviene a chi vive forse più in penombra o comunque sotto luci non naturali, che en plein air. Eppure questo rega o sbarbo come si usa dire per le strade, in tutto e per tutto felsineo, è reduce da una lunga estate portoghese trascorsa nei laboratori teatrali di Thiago Alves, perché rinnovarsi e imparare sempre è cosa salutare, almeno se hai quasi sempre voluto fare questo mestiere, come candidamente ammette.

Non lo crederesti, ripensando agli esordi tutti interni a una “balotta” molto indie, che all’inizio si fece rappresentare dai contenuti ironici del blogger Quit the Doner, a sua volta esploso come la Ferrante dei giovani precari expat in rete. C’era tanta gente allora a far caciara sulle tavole prestigiose dell’oratorio di San Filippo Neri. Un  sotto-sopra palco con il pubblico giovanissimo che si era messo fuori in file chilometriche all’entrata, perché comunque c’era anche lo Stato Sociale in quella storia lì ed era un gruppo di culto, come si dice. Si parlava e si cantava di una condizione generazionale di disagio, spaesamento, assenza di prospettive, tra l’invettiva, il comizio, la stand up comedy, lo speech, la ripresa di un modulo da canzonieri pop-politici riveduti e corretti. Lodo Guenzi, non ancora cosi nazional popolare confessava allora di non sapere se avrebbe fatto sempre quelle cose ancora, una volta varcata la fatidica soglia dei trenta.

Oggi, arrivati tutti a trenta-something, le cose sono sempre fluide, ma molto più definite nelle vocazioni e direi che di strada tanta ne è stata fatta, pur nel loro peculiare movimento fermo. Ossimoro che li tiene ben ancorati ai nostri portici. Nicola non considera questo ostinarsi a parlare di cose molto bolognesi come un limite espressivo-comunicativo del suo modo di fare pratica teatrale, anzi. «Ci siamo resi conto – mi dice – io e gli altri Kepler, adesso strutturati in associazione e dunque con uno zoccolo duro formato da Paola Aiello, Enrico Baraldi  e altri collaboratori satelliti di vaglia, come appunto Lodo in versione drammatica, Bebo Guidetti sempre dello Stato, come soundmaker, il francese Longuemar, professionista delle luci, che, parlando dei fatti che vedevamo accadere intorno a noi, risultavamo molto più efficaci e immediati anche per tante altre platee».

Kepler è il nome di un pianeta scoperto di recente, che avrebbe le caratteristiche di somigliare potenzialmente alla Terra, riproducendone abbastanza fedelmente alcune condizioni minimali favorevoli al bios, e questo dice tutto dell’idea di teatro che anima il nostro. In fondo il Teatro di Kepler, è una sorta di inchiesta permanente, con un tocco di naïveté accattivante, ma anche tanta intelligenza sullo stato delle cose: questa rivoluzione, per esempio, che a quanto pare, non s’ha da fare né ora, né mai, o questi comizi d’amore – reprise, sconvolgenti nella loro verità rivendicata dopo Pasolini, con gli adolescenti delle scuole, “sgamati” fino a un certo punto, sempre per dirla in gergo, nella nostra Emilia, se non proprio paranoica, come cantava un noto gruppo post punk, talvolta comunque schizoide. Per non parlare del sempiterno elettoralmente spendibile dibattito sul degrado, che, nella Kepler versione, il lapsus urbano, diventa un’azione teatrale interattiva, strutturata come percorso turistico di gruppo nell’area universitaria, sulle tracce di tutto il bello e il brutto che le stratificazioni storiche ci consegnano, invitandoci a scrivere ognuno una guida personale della cittadella che volle raccontarsi. Il racconto deve essere necessariamente corale, inclusivo, identitario, come una porta sempre aperta, anche se partiti dalla fatidica cameretta, dove sta ancora la ragione sociale del gruppo.

Novembre è stato un mese cruciale per Nicola, dopo la riproposizione del fortunatissimo festival 20.30, dedicato agli under 30 di tutta Italia, lontani dagli avanguardismi critici e, di nuovo, a grande richiesta  la riproposizione all’Arena del Sole, di quel Giardino dei Ciliegi secondo la loro versione. Un giardino che si deve abbandonare per l’ignavia ipotecaria di una esangue aristocrazia al tramonto da un lato, una casa in comodato d’uso che si è costretti a lasciare, per protervia invasiva di un sistema che tutto vuole colonizzare in ragione economica ed espansiva, dall’altro.

Le parole immortali di Čechov, appaiate all’autobiografismo di Giuliano e Annalisa, una coppia forse eccentrica, dedita a una pittoresca preservazione di specie animali fai da te, che aveva fatto del suo giardinetto a prestito un eden di felicità domestica, tra tortellini e vino rosso, traditi per grottesco contrappasso dalle ruspe fondative del tempio della filiera agroalimentare e gastronomica  il cui nome-acronimo strizza l’occhio a un  incongruo entusiasmo giovanilista. E il giovanilismo è invece totalmente assente qui, quando sentiamo di due anziani col colbacco catapultati nella vita e nel racconto, in quell’esperienza multietnica  particolare per sfollati sgomberati che fu il Galaxy, nella temperie del nostro urbano scontento, quando di nuovo furono “disoccupate le strade dai sogni”.

Uno spettacolo che ha fatto scalpore perché il garbo letterario ha impresso negli spettatori commossi il senso vivo di perdite irreparabili che forse si fatica a percepire dai telegiornali e potrebbero riguardare tutti noi. Del resto, Nicola Borghesi, a dispetto del suo nome, ha anche il fegato di dichiararsi comunista, cosa non proprio comune per i giovani della sua generazione. Un comunismo dal volto gentile e che sicuramente ha messo le persone prima delle ideologie da un bel pezzo. Un comunismo anche romantico e divertente, che sa prendersi in giro, riconoscendo i tratti dell’eterna lotta contro i padri, nei tic pseudo rivoluzionari di tante generazioni, che hanno cercato la spiaggia sotto i sampietrini, come per esempio recita il loro lavoro di questa primavera dedicato al’68, poi ripreso come breve cammeo nell’ambito delle iniziative collegate alla mostra documentaria Non è che l’inizio a Palazzo d’Accursio. Una generazione di ribelli colta, educata, utopista e scanzonata proprio come i keplerini.

Non potevamo chiudere questa chiacchierata che con una domanda sulla Resistenza, rimessa in discussione nelle sue matrici politiche e storiche mille volte negli ultimi anni, tacciata quando va bene, di essere un mito retorico e impolverato, incapace di appassionare più di tanto le generazioni più recenti, forse perché anche il valore culturale e identitario della conoscenza storica viene ripetutamente messo sotto attacco. Nicola, un ragazzo che sarebbe piaciuto a Gaber e che certo è molto lontano da qualsivoglia spirito celebrativo, si fa serio per scandirmi convintamente di amare la Storia, senza timore di sembrare anacronistico e di considerare quella generazione resistenziale la base di tutto. «In fondo la Resistenza – mi dice – è il nostro mito buono, fondativo in quanto repubblica democratica e comunità» e quello che più sente formativo per lui e tutti devono poterci trovare le loro ragioni. Per questo critiche, revisioni e dibattiti  non lo scalfiranno mai, anche se ancora non ha pensato di dedicarci un lavoro strutturato perché non sarebbe semplice per nulla.

In ogni modo, Resistenza è ciò di cui parlano sempre i suoi spettacoli, mettendo in scena difficoltà, disagi, tipologie sociali cui  certo la vita non fa sconti ma che trovano o inventano tuttavia modalità per rimanere umani. Perdere le cose, si intitolerà il prossimo lavoro di Kepler, ancora in gestazione. Abbiamo perso tutti sicuramente qualcosa in questi anni disillusi e per questo speriamo che su questo pianeta cugino ci sia ancora vita attiva di pensiero per molto tempo a venire.

Leave a Reply