Attualità

Dialogo sulla democrazia

By 27 Novembre 2018 No Comments

di Matteo Rimondini

Ivano Dionigi, già Rettore dell’Università di Bologna e Presidente della Pontificia Accademia di Latinità, ha accettato di dialogare sullo stato delle parole in questo particolare momento storico. Dionigi, infatti, specialmente dalla pubblicazione de Il presente non basta, analizza alcuni caratteri del nostro tempo passando al vaglio lo stato e l’utilizzo delle parole.

Professore, come sta oggi la parola?

Oggi più che mai credo che la parola dimostri tutta la sua nobiltà per un verso e fragilità per un altro. Rimane sempre il carattere distintivo dell’uomo, è questo che fa la nostra nobiltà. Il greco ha un parola unica, lògos, da suddividere: parola, discorso e anche ragione. Mi sembra di tornare un po’ al V secolo a.C., ad Atene, quando si fronteggiavano due posizioni: il lògos di Socrate che mirava a trovare i fondamenti comuni all’epistéme cioè un sapere fondato scientificamente, all’alétheia ovvero la verità. Dall’altra parte è avvenuta la rivoluzione sofistica. Più del sapere scientifico interessa la dòxa, l’opinione, e più della verità l’eikòs, la verosimiglianza, e la vita è intesa come una grande battaglia tra lògoi. A Roma, Cicerone dirà che quando la parola è strumento dei boni cives, allora la Repubblica si salva, ma quando è proprietà dei disertissimi homines, demagoghi, la Repubblica va in rovina. Oggi noi assistiamo a un fenomeno di impoverimento e riduzione della parola, soprattutto con l’era di internet, e a un rinnovato impero della retorica; tutto è reso per un verso efficace per un altro semplice. Da un punto di vista mediatico, la parola spesso è ridotta a merce, oggetto di pubblicità. Oggi si scrive e parla male e per questo dico che i classici giovano a parlare bene. Noi non usiamo le parole optima, le migliori, significantia, dense di significato, ma verba obvia, quelle che sono sulla via e che tutti calpestano. Infine, se è vero invece che ognuno usa il proprio logos, è necessario identificarsi con la propria parola ed esserne gelosi. Diciamo: gli extracomunitari devono imparare la nostra lingua. E cosa facciamo, cancelliamo la loro? Perché noi non dovremmo imparare la loro? Ogni persona e ogni popolo ha il suo lògos che va salvaguardato. Questo oggi è il compito che spetta a noi, nell’era dell’immigrazione, di internet: parlare la propria lingua e non adattarsi servilmente a quella degli altri.

Durante questo processo, cosa stavano facendo gli intellettuali?

Gli intellettuali in questo trentennio non hanno dato buona prova di sé. Abbiamo trovato intellettuali che spesso scodinzolavano dietro ai prìncipi di turno per accasarsi, e quelli a sinistra, che si sono creduti meglio di altri. L’intellettuale non deve raccontare come il mondo va, ma come dovrebbe andare. L’intellettuale vero deve essere un piccolo Mosè: deve avere il senso del destino individuale e collettivo di una comunità, come Mosè ha traghettato fuori dall’Egitto, e deve far capire il tèlos, il fine delle proprie azioni. Mi riferisco ancora all’antichità: il populus che rispetta le leggi durante il periodo repubblicano è allineato con il senatus che legifera; durante l’impero invece, dice Seneca, c’è un popolo che gode nel dare il potere al peggiore, perché vuole consolazione e non verità. Contro ogni speranza, credo che un avamposto fondamentale sia la scuola, così trascurata negli ultimi anni.

Quali sono le parole che più hanno cambiato significato?

Ci sono parole che in seguito a sovvertimenti hanno preso significati nuovi. Penso a “padre” e “madre”: prima erano collegati al sangue, poi è arrivata la legge e le ha collegate alle adozioni, poi adesso il laboratorio. Quindi, chi è padre, chi è madre? C’è dunque una difficoltà oggettiva: oggi più va avanti la tecnologia e più ci sono parole da ripensare profondamente in base ai nuovi codici scientifici, etici e tecnologici. Oggi mi pare che ci sia un salto, si va a intaccare l’ambito istituzionale: la parola dignità, la parola politica ridotta ad accordo, la parola pace ridotta a condono. Oggi bisognerebbe che ognuno facesse bene il proprio lavoro facendo nei propri settori un’ecologia linguistica, cioè scoprire le parole chiavi fondanti delle proprie professioni, riscoprendo l’etica della competenza. Credo che ognuno debba ripartire dai fondamentali con una discriminante: che chi fa politica la fa per il bene degli altri, guardando avanti.

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