di Silvia Napoli
Si fa presto a dire choosy e sputare sentenze, quando si parla di giovani nel nostro Paese.
Giovani che, tutto sommato, assediati come sono da mediocri maestri e invadentissimi diversamente giovani, pronti a indirizzare la loro sacrosanta voglia di esserci e contare qualcosa verso i lidi dell’esibizionismo talentoso, salvo poi stracciarsi le vesti moraleggiando, hanno a ben vedere qualche ragione di filarsela a gambe altrove.
Selettività peraltro è lo strumento attraverso cui i sagaci organizzatori del festival20.30, visto qui a Bologna nella seconda metà di novembre, hanno scelto per dribblare il compiacimento autoreferenziale , rischio ed insidia di tutte le forme di autorappresentazione culturale, specie se sei arrivato alla quinta edizione con numeri da sold out in tutte le sedi designate. Per la verità la rappresentazione, per questi teatranti disillusi ma non cinici, entusiasti ma non fanatici, ha il sapore di una rappresentanza e non tanto di generazione, quanto di…classe .
Estromessi in qualche modo dal discorso pubblico, i giovani della nuova avanguardia, ben lungi dal considerarsi duri e puri, come recitava la nota strofa di Freak Antoni, anche perché oggi forse flessibilità e contaminazione sono più premianti come categorie concettuali di riferimento, o semplicemente più realistiche, se ne sono inventati una loro, supplettiva forse delle forme politiche correnti, ma non certo delle grandi idealità e degli orizzonti sistemici di riferimento.
Capita cosi che, tra una compatibilità e l’altra, di sistema, appunto, c’è ancora qualcuno e forse più di qualcuno che chiama le cose con il loro nome e se in un dibattito televisivo di ordinaria campagna elettorale permanente sarà difficile sentir pronunciata la parola Capitalismo, la ascolteremo spesso e volentieri invece sia durante le situazioni performative di questo Festival sia nei suoi momenti di riflessione convegnistica.
Se il salto cui allude il sottotitolo del festival di quest’anno, deve essere nel vuoto, dunque non è senza rete o numi tutelari e infatti si aggiunge anche che: fin qui , tutto bene … una sorta di mantra, un auspicio, più che un dato di fatto.
Disagio etico ed esistenziale se ne percepisce, tra un aperitivo e un party, nei lavori di giovani compagnie, rigorosamente under trenta, selezionate da una giuria-staff a sua volta under trenta, onde garantirsi quella partecipazione effettiva che fuori, altrove, sembra negata.
Di acqua ne è passata sotto i ponti, da quando un nucleo di allora ragazzotti artistoidi, visionari, forse apparentemente velleitari, ironici e garbati tutto insieme, nipoti per destino, di tutti i movimenti e le situazioni di massa dalla Resistenza in poi, decise di provarsi con una chiamata a raccolta forse non ancora festival, non proprio factory, servendosi di vari mezzi espressivi a raccontare in maniera credibile l’hic et nunc di una generazione in difficoltà imbrigliata in un soffocante politically correct, nella certezza storica che l’età adulta, rifuggita da tanti ribelli con e senza causa che li aveva preceduti, per loro forse non sarebbe mai arrivata, consapevole di avere pochi riferimenti intellettuali contemporanei in senso alto e molta molta cultura pop o cascami di essa cui attingere. Quindi improvvisazione teatrale, stand up comedy, fumetto, comicità televisiva, canzoni rock e pop, tecniche di laboratorio sperimentale , insieme con scuole serie, anche classiche di formazione dell’attore, fuori un po’ dai sancta sanctorum delle avanguardie locali, quelle storiche. Non in contrapposizione o alternativa ad esse, e soprattutto non con l’idea di scappare da qui, ma viceversa di trovare un proprio modo di raccogliere un testimone, di portare avanti un’esigenza, di continuare a stare in mezzo senza snobismi anche a quelli che a teatro non ci vanno mai . Forti in fondo, della lezione che il personale è politico, desiderosi di sedimentare le esperienze e maturare, ma senza invecchiare precocemente, magari, dentro outfits inadeguati o anacronistici, senza occupare una cattedra o alzare il sopracciglio della critica, senza pretendere di consacrare il vero nuovo gruppo o la nuovissima tendenza, come di solito i festival dell’ufficialità ambiscono di fare.
Questa sorta di rivoluzione permanente si fa non sparando sul quartier generale, ma evolvendo e subentrando. Oggi Nicola Borghesi che è stato anima ideativa ma non solo, delle prime edizioni, c’è , ma anche no , come si dice tra i zuven: ha lasciato in mano ai fidi e un filo più giovani colleghi di Kepler e alle Avanguardie20.30, armate di uno staff generoso, instancabile e onnipresente l’organizzazione e conduzione sempre più complesse, per il moltiplicarsi dei sodalizi, dei gemellaggi, delle collaborazioni, dei luoghi, di questa puntata di un discorso che si estende a tutta Italia e si dipana, mentre cresce con il pubblico, la giovane critica , la capacità collettiva di leggere, filtrare, decodificare miti, fakes, linguaggi, tendenze, creature vere o immaginate, realtà ibridate e parallele. Cosi, in questo percorso non più solo Oratorio San Filippo Neri con la Fondazione del Monte , i primi a scommettere sulla freschezza di questo progetto, ma ERT con la sua Arena del Sole, e le storiche Moline, Altre velocità come ensemble critico, Compagnia dell’uva , Locomotiv, per i momenti ricreativi in sinergia con il Billbolbul, festiva internazionale del Fumetto d’autore.
Se le prime edizioni si confrontavano con quel che resta delle Utopie del Novecento, a chi scrive sembra che questa edizione abbia rappresentato un mondo che ha già inglobato al suo interno diversi momenti distopici e che probabilmente cerca l’antidoto a tutto questo con umorismo, presa di distanza alterazione del linguaggio, parodia , come avviene ad esempio in Tropicana di Frigo produzioni, Stabat mater di The baby walk da Milano, il Sempredomenica, dell’impressionante collettivo romano Controcanto, che osa mettere in discussione il feticcio del lavoro dignitoso ad ogni costo, passando per lo straniamento indietrap del musicista performer TheAndrè, alias e proiezione anche no del cantautore genovese, per arrivare al grottesco splatter molto Tamburini Liberatore nelle atmosfere, di Fabrizio Martorelli e della sua Peppa Pig. Di nuovo, ogni personale nevrosi , ogni scarto, ogni scollamento sono ritrasmessi come politici o quantomeno esito di una pratica sociale. Ci sta, che incastonato al centro di tutto, in uno dei luoghi più avanguardia degli anni 70, quali le mitiche Moline, si sia svolto un intenso affollatissimo pomeriggio dalla rimembranza leninista, il talk, Che (teatro) fare? perché forse di un inedito comitato centrale esteso, un ossimoro di massa, si sente vaghezza cosi come della necessità di discutere. Il collettivo Altre Velocità ha svolto una funzione moderatrice, o forse semplicemente di maieutica d’ascolto in un contesto in cui spesso autori e pubblico sono coincidenti e una volta schivati gli scogli dell’autocompiacimento ci si chiede come poter andare oltre, parlare a tutti, mantenendo identità e libertà, quando tutte le provocazioni sembrano già superate o vane. Non sembra certo una pura formalità da padrone di casa, la presenza di Claudio Longhi, giovane direttore di ERT, fratello maggiore, potremmo affermare, dei ragazzi che ha d’intorno, appassionato e competente dirigente e regista formatosi oltreché su rigorosi studi, su una precoce pratica laboratoriale, inizialmente amatoriale. In effetti, una via che la sua direzione sta tracciando è quella di massima connessione con la città in tutte le sue espressioni dentro e fuori dallo spazio teatrale convenzionalmente inteso. Non si può non parlare a questo punto dell’off festival, che ha impreziosito il week-end antecedente, presentandosi come un incubatore di talenti performativi e visuals, inseriti in un tour di nove abitazioni pescate tra fuorisede legati agli ambienti dell’Accademia e organizzatori stessi, a cominciare dalla abitazione di Enrico Baraldi e Paola Aiello. La magia dell’intimità disvelata e tradotta nella lingua personale di ogni artista tramite installazioni e azioni site specific, di nuovo ha saputo raccontare di Storia, di storie e persino di mondi lontani che però ci entrano in casa con la tv, e tutti gli altri media e, a ben vedere, potrebbero scorrerci accanto per strada inconsapevolmente nelle nostre città multitutto.
In attesa di qualcosa che assomigli ad un bilancio, ad una raccolta di atti, intanto Kepler con le sue diramazioni è ancora oltre e abbandona le atmosfere urbane per la bassa padana e il lungo racconto di comunità che la stagione Liberty, da qualche anno sapientemente compone e condivide avvalendosi anche dei nostri. L’appuntamento con La grande età, da una felice definizione di Roberto Roversi,happening intergenerazionale lungamente meditato e preparato, sarà il 16 dicembre alla bocciofila di San Pietro in Casale ed è certo sia un’occasione da non perdere, perché prima o poi, le età cambiano, l’importante è rimanere collegati e in ascolto: stay tuned.