È piccolo perché sta tutto in una stanza. Ma è grande per le tante storie di emigrazione che vi sono raccontate: da quando il fenomeno cominciò a essere registrato nel 1875, fino ai nostri giorni. Ci son anche testimonianza specifiche che sottolineano come Monghidoro, da paese di emigranti, si sia trasformato in paese di immigrati, tanto che quasi il 10% della popolazione è composta di stranieri provenienti da più di trenta nazioni diverse.
Per molti monghidoresi si è trattato di un’emigrazione solo stagionale, ma intere famiglie emigrarono definitivamente in altre città d’Italia e per Paesi più lontani – soprattutto in Francia, Germania e Belgio – tanto che la popolazione dai quasi seimila abitanti del 1911 passò ai 2.400 del 1971. Miseria, criminalità, conflitti sociali, desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita: erano questi i principali motivi che spingevano a lasciare la propria terra, con la speranza nel cuore di tornare, allora come adesso.
Un periodo molto particolare per Monghidoro e per l’emigrazione fu quello del ventennio fascista. Nelle elezioni politiche del 1919 a livello comunale i socialisti ottennero molti voti, tanto da conquistare la maggioranza. La loro forte presenza fra i monghidoresi fu mal tollerata dalla nascente reazione squadrista, che compì anche nel nostro paese atti violenti. Nei moltissimi documenti e nelle testimonianze raccolte, si citano arresti immotivati, episodi di violenze, veri e propri pestaggi e l’omicidio di un antifascista nel 1922, eseguiti dai fascisti locali o da altri venuti appositamente da fuori. Molti, rispetto anche ai paesi limitrofi, furono poi i sorvegliati dalla polizia fascista perché dichiarati “sovversivi” e costretti a emigrare nei paesi limitrofi, a Bologna o addirittura all’estero con tutta la famiglia. È il caso di Mario Alpi, di professione calzolaio. Emigrò in Belgio, a Chatelineau, nel 1922, dopo essere stato manganellato dai fascisti, per aver partecipato alla celebrazione del Primo maggio a Bologna. Nel 1923 si fece raggiungere dalla moglie e dai sei figli, tutti sorvegliati dalla polizia.
Il figlio Carlo nel 1924 diventò segretario dei giovani antifascisti emigrati in Belgio e nel 1927 responsabile di questo settore dell’emigrazione italiana in Francia, Belgio, Lussemburgo e Svizzera e del giornale La Riscossa della gioventù. Fu espulso dal Belgio nel 1930, poiché il console italiano lo aveva denunciato al governo belga per la sua attività politica. Rientrato clandestinamente in Italia, fu arrestato, deferito al Tribunale speciale e condannato prima a 20 anni, ai quali se ne aggiunsero altri 8, alcuni scontati nel carcere di Civitavecchia e in seguito al confino a Ponza. Tornato in libertà nell’agosto del 1943 prese parte alla lotta di liberazione sull’Appennino tosco- emiliano, con la funzione di ufficiale di collegamento. Il 14 ottobre 1944 l’Amg (Amministrazione militare alleata) su designazione del Comitato di liberazione lo nominò sindaco di Monghidoro.
Il fratello Cleto organizzò la resistenza armata nella zona di Charleroi reclutando decine di esuli, per lo più minatori, formando un gruppo passato alla storia come il Gruppo Alpi. Entrato nella clandestinità, durante l’occupazione tedesca, reclutò uomini e donne, distribuì la stampa clandestina, recuperò armi, compì azioni di sabotaggio, offrì sostegno ai prigionieri russi. Nel 1947 venne riconosciuto Résistant armé dal ministero della difesa belga e decorato con la medaglia alla Resistenza. Ricevette un’onorificenza anche dagli inglesi, ma nel 1950, durante gli anni della guerra fredda, venne espulso dal Belgio per il suo impegno politico. Nel 1960, in seguito alle scuse ufficiali del governo belga, poté rientrare a Chatelineau, e ricongiungersi ai due figli.
Quando in Spagna scoppiò la rivolta capeggiata dal generale Franco, tre nativi di Monghidoro – i fratelli Aurelio, Antonio e Carlo Lanzarini sorvegliati dall’Ovra – dalla Francia, dove erano emigrati nel 1925, andarono a combattere in Spagna in difesa della repubblica. Aurelio combatté a Guadalajara dove fu ferito e morì nel 1937; Antonio e Carlo, rientrati in Francia, vissero in clandestinità fino alla fine della guerra.
In una teca ci sono i documenti che raccontano la storia di Giuseppina Nassetti, nata nel 1880 a Monghidoro, emigrata in Francia nel 1925. In un documento della regia prefettura di Bologna del 1928 si legge che «nell’agosto 1922 i fascisti di Monghidoro, venuti a conoscenza che nella casa di lei vi era una bandiera rossa, andarono a prenderla, ma la Nassetti si oppose dicendo di non avere alcuna bandiera rossa, e quando questa fu rinvenuta dai fascisti, si mise ad inveire contro di essi. Non consta quale politica ella abbia tenuto all’estero, ma si ritiene che ella abbia sempre conservato le sue idee sovversive, e che sia capace di adoperarsi per propaganda contraria al Regime. Non risulta d’altronde che ella abbia interessi importanti da sistemare a Monghidoro, per cui questo ufficio sarebbe del parere di non concedere il passaporto né a lei, né al marito Mongiorgi Leandro».
Fin dal 1924 una decina di monghidoresi, malvisti in paese perché antifascisti, emigrarono in Belgio, a Rebecq, per lavorare in una cava di porfido. Negli anni furono raggiunti dai familiari e nel 1946, in seguito agli accordi tra Italia e Belgio, altri 33 giovani monghidoresi si stabilirono là. Altri parenti e amici li seguirono negli anni Cinquanta, tanto che nella cava di Rebecq il gruppo di stranieri più numeroso era quello dei monghidoresi. È difficile quantificare oggi quante siano le famiglie di Rebecq con almeno un membro di origine monghidorese. Certamente sono molte centinaia.
Per anni con questi nostri concittadini non ci furono rapporti ufficiali: erano stranieri in Belgio, ma lo erano anche qui, nel loro paese d’origine. Nelle loro rare visite, infatti, mantenevano rapporti con i soli familiari e con gli uffici del comune, ma solo per pratiche burocratiche. Dal 1991, invece, i rappresentanti delle amministrazioni dei due comuni hanno cominciato ad avere dei contatti che si sono conclusi con un vero e proprio gemellaggio, con visite ufficiali cadenzate, scambi di singole persone, di gruppi e associazioni, che coinvolgono centinaia di persone di entrambi i paesi.
La memoria dell’emigrazione, spesso relegata solo ai ricordi familiari, con il gemellaggio e la realizzazione del Piccolo museo dell’emigrante è diventata Storia collettiva, patrimonio di una comunità che, come la lotta al fascismo e il lungo cammino per riconquistare libertà e democrazia, debbono essere esperienze di cittadinanza, da conservare e trasmettere.
di Vittoria Comellini – ANPI Monghidoro