Nell’atmosfera terrestre sono presenti i gas serra (tra cui anidride carbonica e metano) che trattengono il calore prodotto dalla radiazione solare. Non ci fossero, il pianeta sarebbe più freddo e inadatto alla vita. Ma numerose attività umane ne emettono ulteriori enormi quantità. Così, la temperatura media della superficie terrestre aumenta: siamo già a oltre 1 grado in più rispetto ai livelli preindustriali (metà del XIX secolo) e, se non verranno presi provvedimenti, si potrà arrivare fino a oltre 6 gradi in più entro la fine di questo secolo. Un fenomeno del tutto inedito negli ultimi 200 mila anni, che minaccia l’intera specie umana. Che fare? Ne abbiamo parlato con Luca Mercalli, climatologo e divulgatore scientifico, presidente della Società Meteorologica Italiana Onlus, fondatore e direttore della rivista Nimbus e responsabile dell’Osservatorio Meteorologico del Collegio Carlo Alberto di Moncalieri (TO). Il suo ultimo libro è Il clima che cambia, Segrate, Bur, 2019.
Politica, economia e media hanno impiegato troppo tempo a riconoscere la gravità del problema.
Non solo: tendono anche a dimenticarlo in fretta. La prima conferenza sul clima delle Nazioni Unite (Rio de Janeiro, 1992) portò alla firma della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici. Il tema divenne di dominio pubblico, poi ci fu un primo calo di attenzione. Se ne parlò nuovamente nel 1997, con la redazione del Protocollo di Kyoto, e nel 2009, prima della conferenza sul clima di Copenaghen, ma anche in questi casi l’interesse scemò, nonostante internet facilitasse la circolazione della conoscenza scientifica. Tutte fiammate che poi si sono spente con una ciclicità che temo proseguirà.
Nemmeno gli eventi estremi bastano per rimanere in allarme?
Si parla di cambiamento climatico ogni volta che ci sono violente ondate di calore, come quella dell’agosto 2003 che fece 70.000 morti in Europa, o uragani devastanti come Katrina (2005) o Sandy (2012). Non per questo cambia la consapevolezza del problema, nemmeno adesso con gli incendi in Australia: hanno un premier negazionista ma è rimasto in carica. Non serve invocare eventi estremi: quando sono relativamente piccoli ci lasciano indifferenti, quando invece sono abbastanza grandi da terrorizzarci è troppo tardi per mitigarli, tantomeno prevenirli. Manca una riflessione abbastanza profonda da condurre ad azioni concrete.
Adesso accade qualcosa di diverso rispetto al passato?
C’è il movimento internazionale dei giovani simboleggiato da Greta Thunberg, segno che esiste una fascia sociale più strutturata che in passato, che si pone domande e pretende azioni concrete. C’è il green deal della Commissione europea. Ci sono attori dell’industria e della finanza che prendono più sul serio i rischi climatici e ambientali perché si sono accorti dell’entità dei danni che sono e saranno costretti a pagare. Ma non basta per parlare di un cambiamento radicale. Non è detto che questa sia la volta buona.
Cosa rallenta la presa di coscienza?
Ci sono interessi economici che remano contro, in particolare quelli dell’industria globale dei combustibili fossili. La conoscenza del cambiamento climatico era già completa 40 anni fa: il rapporto Charney del 1979, un documento ufficiale dell’Accademia delle Scienze Usa, testimonia il consenso scientifico sul tema. Politica ed economia sapevano tutto già allora e non hanno invertito la rotta. Anzi, hanno fomentato il negazionismo e diffuso pareri contrastanti, ma infondati, per profitto.
E sul piano individuale?
Siccome i problemi climatici e ambientali vengono messi in prospettiva futura e non immediata (a differenza di quanto accaduto di recente con il coronavirus, ad esempio) ci sentiamo minacciati da cose più dirette e rimuoviamo quelle apparentemente meno urgenti. Come con il fumo. Non tutti i fumatori smettono di fumare se gli si dice che rischiano un cancro ai polmoni nel giro di pochi decenni. Questa indifferenza genera lentezza nel trasformare la consapevolezza del problema in azione.
Servono sia la consapevolezza collettiva che la volontà politica.
Sì, solo così possiamo promuovere tanto leggi, quanto comportamenti volti a prevenire un peggiorare della situazione. Ma se non avvengono insieme non funzionano. Una società inconsapevole non esprime una politica adeguata o la rifiuta se esiste. In Francia è bastato un piccolo aumento nel prezzo dei carburanti per far scoppiare la rivolta dei gilet gialli. Bisogna fare attenzione a non penalizzare le fasce più deboli di una popolazione. Se invece, come accade in Cina, la politica è consapevole ma impone le proprie decisioni, otteniamo scelte che per quanto sagge sono autoritarie e impopolari. Se preferiamo la via democratica bisogna informare adeguatamente i cittadini. Per ora questo avviene, forse, soltanto nei Paesi del Nord Europa, dove c’è una sensibilità ambientale più sviluppata che altrove.
C’è anche una dimensione di classe, perché sono i paesi e i ceti più poveri a essere maggiormente colpiti?
Solo in un primo tempo, alla lunga non ci sono differenze significative tra ricchi e poveri. Al mondo tutto è collegato, quindi siamo tutti esposti agli stessi rischi e tutti abbiamo qualcosa da perdere.
Quindi è richiesto uno sforzo immane.
Certo, perché abbiamo fatto danni che non hanno eguali nella storia della specie umana e continuiamo a scherzare con forze molto più grandi di noi. I conflitti tra esseri umani si possono risolvere coi negoziati. Con la termodinamica non si negozia. Anche perché stiamo risvegliando processi fisici che una volta innescati si amplificano e rinforzano da soli. Oltre una certa soglia – che l’accordo di Parigi (2015) ha fissato a 2 gradi in più sui livelli preindustriali – non potremo più farci niente, il pianeta sarà sempre più inospitale e ne soffriremo sempre di più, soprattutto dalle giovani generazioni in poi.
Di che tipo di sforzo parliamo?
Da un lato è tecnologico, e può quindi avere un elevato valore di progresso. Investire nelle rinnovabili, nell’efficienza energetica, assicura innovazione. Però non basta, dobbiamo anche riconoscere il fatto che stiamo sfruttando in maniera eccessiva, esagerata, le risorse disponibili. Cambiare le fonti energetiche va bene, ma bisogna anche ridurre l’entità dei consumi. Distinguere il necessario dal superfluo.
Un problema filosofico.
Lo affronta l’enciclica Laudato Sii di papa Francesco. Dobbiamo sapere che le economie, le popolazioni, i desideri non possono crescere all’infinito usando risorse finite. Il sistema sociale ed economico dovrebbe essere stazionario: ci accontentiamo di qualcosa e rimaniamo lì. Il consumo di suolo nel nostro Paese, ad esempio, è limitato dai suoi confini. Città, campagne e natura devono avere ciascuna il suo spazio, senza che la cementificazione lo violi. La politica dovrebbe dire che i beni comuni hanno un limite e vietare di superarlo, altrimenti li esauriamo. Finora non ha avuto questo coraggio, per non mettersi contro certi interessi.
E cosa deve cambiare nei comportamenti individuali?
Tutto deve essere rivisto in un’ottica di maggiore sobrietà, affinché abbia un impatto ambientale minore. Dai consumi energetici domestici, ai trasporti, all’alimentazione. Percorrere distanze più brevi in vacanza, mangiare meno carne, evitare prodotti non necessari, usa e getta, che diventano rifiuti in breve tempo. Ci sono cose superflue rispetto ai bisogni primari, come leggere o ascoltare musica, che però non hanno un elevato impatto ambientale. Acquistare auto più grandi o volare spesso ce l’hanno eccome, consumano troppe materie prime ed energia.
È un processo che interessa anche altri ambiti.
Sì, penso ad esempio all’iniqua distribuzione delle risorse fra gli esseri umani. È possibile garantire benessere anche a chi non ce l’ha pur senza devastare il pianeta. Oggi 821 milioni di persone non hanno da mangiare mentre gli obesi sono quasi 2 miliardi: si può senz’altro riequilibrare. E poi ci sono anche altri problemi ambientali collegati a quello del clima: la deforestazione, la carenza d’acqua, l’acidificazione degli oceani, l’estinzione di massa di molte specie viventi, che comprende la scomparsa di animali senza i quali anche noi non possiamo sopravvivere, come gli insetti impollinatori. L’umanità non ha mai affrontato niente del genere, per questo serve uno stato di mobilitazione perenne e permanente.
Può aiutare a prendere coscienza del problema spiegare cosa può accadere da noi?
Sta già accadendo. In Italia le abbiamo tutte fin d’ora, siamo uno dei Paesi più esposti d’Europa. Sale il livello del mare, quindi aumentano le inondazioni a Venezia. Si sciolgono i ghiacciai alpini, cosa che incide sulla portata dei fiumi. Sono sempre più frequenti gli incendi boschivi, le alluvioni, i periodi di siccità e le ondate di calore, invernali e non solo estive; basti ricordare che in Piemonte ci sono stati 27 gradi di massima il 3 febbraio, in pieno inverno. Viviamo in un territorio che è già molto vulnerabile e rischiamo danni incalcolabili: all’agricoltura, alle riserve idriche, alla produzione di energia, alla sicurezza delle persone. Bisogna lavorare sulla prevenzione. Se aspettiamo troppo a lungo diventa troppo tardi.