Pierluigi Gigi Sullo, è una penna militante, qualunque cosa voglia oggi dire questa espressione, di indubbia vaglia. La direzione del Quotidiano dei Lavoratori, la lunga collaborazione con Luigi Pintor alla guida del Manifesto della fase più fulgida, l’esperienza del periodico Carta, da lui fondato, inchieste e reportages su tutti i temi più caldi dei movimenti vecchi e nuovi, lo rendono figura credibile e certificata per continuare a dire la sua sullo stato delle cose . Certe volte si può legittimamente riflettere e lottare in modalità oblique, alla ricerca di rivoli carsici di pensiero e sentimento che sembrano al momento occultati e silenti, in attesa di un ciclo nuovo di mutamenti.
Non facile naturalmente a questo punto, parlare senza inanellare banalità, di un libro che ha già raccolto recensioni lusinghiere ed importanti (una su tutte quella di Adriano Sofri) e ha avuto in giro molte presentazioni, quale La rivoluzione dei piccoli pianeti. Un romanzo nel ‘68. Sottotitolo cui io aggiungerei un come eravamo o avevamo sognato di essere, riferito ad un panorama emotivo e attitudinale, uno state of mind di una fetta generazionale, prevalentemente studentesca, ma non solo e forse anche al suo lascito ereditario culturale. E qui il discorso interpretativo diventa fatalmente sdrucciolevole. Già dal titolo questa opera narrativa, che diciamo sguscia un po’ da tutte le parti, ove si tenti di chiuderla in griglie, costruita con una sapiente formula narrativa a metà tra diaristica e matrioska di storie incastonate in capitoletti che si aprono come cassetti e porte della percezione, si nutre di tutte le ambiguità e contraddizioni che intercorrono tra Memoria, Storia, Cronaca. Dunque non è un romanzo storico nel senso più filologico del termine: è stato infatti definito un bildungsroman, di formazione sentimentale e vedremo poi di capire, formazione di chi, se dal punto di vista del manipolo di liceali umanisti al centro del racconto o formazione “per chi”, cioè rispetto a lettori avventurosi e recettivi, o in fondo rispetto all’autore stesso .Autore al centro di una rielaborazione circolare e non strettamente diacronica delle vicende. Tanto da chiedersi se l’aspetto politico della narrazione, non sia insito nel contesto, il 68 appunto, quanto proprio in questo suo peculiare spirito formativo e informativo a 360 gradi. Quindi un romanzo a immersione, accelerazione e poi dilatazione. Che siano le teorie della nuova psicologia quantistica, che si tratti di un rinnovato connubio tra psicanalisi e marxismo, il romanzo affronta coraggiosamente, con diversi strumenti, l’operazione più ardua di sempre: modellare il romanzo dal punto di vista strutturale e stilistico sullo spirito ribelle dei tempi, più che sui fatti che pure non mancano, e creare un un link naturale tra vissuti interiori e micro-macro mondi esterni. Il libro affronta a tratti, con esibita pignoleria filologica, il tema linguistico, adoperando topoi delle veline poliziesche d’antan ibridandole con un colloquiale non gergale o giovanilista né tanto meno vernacolare, con inserti poetici e citazionisti . Ciò testimonia, come chi scrive può solo confermare, di quanto sia difficile rendere conto di un cambiamento epocale di costumi, della nascita di quella nazione indiana e contemporaneamente target di consumi che sono tuttora i Giovani e dell’affermarsi di una cultura di massa ibrida, pop, antiaccademica, esigente, affamata di passato e futuro e non ancora doma alle ragioni del Mercato. Si ingenera in tal modo, al di là delle intenzioni, una sorta di lirismo a tratti pedagogico nello sciorinare le varie tappe iniziatiche di una gioventù ordinaria ed esemplare o, se vogliamo, di un intelletto-autore collettivo. Il 68 non fu fino in fondo a ben vedere una rivoluzione compiuta, e magari fino in fondo digerita, come già successe ad altri capitoli della nostra storia, ma fu anche una prova generale di interconnessione mondiale come ben sappiamo, affascinante per le nuove soggettività messe in campo o come propulsore di altre in seguito capace di generare tanti cambiamenti imprevisti o non governabili fino in fondo nelle conseguenze, iconico per immagini e slogan ma edificato su parzialità che lo rendono tuttora un puzzle, tale da farci interrogare sul cosa apparirà. Persino una mente fine e analitica come Rossanda al termine del bel ciclo di supplementi cui lo stesso Sullo ha contribuito, dedicati dal Manifesto alla ricorrenza cinquantennale, resta insoddisfatta a guardare un crinale periglioso di giudizi in parità tra determinazione di nuovi soggetti e bisogni e necessaria opera di modernizzazione di sistema. Sullo per smarcarsi da questo dilemma e tentare di rappresentare eventi trascorsi come un qui ed ora, possesso per sempre, come dicevano i classici, sceglie una soggettiva, per dirla in termini cinematografici, visto che molteplici sono i rimandi in tal senso, un’angolazione particolare di prima persona mediata, non tanto da un coro, quanto (e qui sta un altro motivo di interesse sperimentale), da un punto di vista moltiplicatorio di soggettività, il che più che ad una concatenazione di eventi accidentali della Storia rimanda ad una lettura del mondo come processo di letture del mondo medesimo La vicenda stessa dei giovani coinvolti, coglie in nuce un punto di crisi quasi filosofico-antropologico legato ai movimenti in generale cioè quello della dialettica soggettività – collettività, antiautoritarismo, programmazione, individualismo- conformità. Rumore di fondo appena accennato in quel 67 da cui il libro parte, ma che diventerà poi frastuono in seguito. Una dialettica che può portare quasi allo stigma, alla solitudine e al sacrificio di sé, come accade ad alcuni personaggi. Per cercare di rappresentare, ma nello stesso tempo non tanto esorcizzare, quanto arginare, il caos che sembra premere da tutte le parti, il romanzo fa adoperare al protagonista una puntigliosa ricerca di esattezza di linguaggio, aggrappandosi ai dizionari di lingue morte e vive come bibbie prima di Google. Il romanzo rappresenta anche, come effetto secondario, una carrellata sui media quando non c’erano i socials, incalzata dai severi moniti morettiani sui rischi del pensare parlare e scrivere male. Questo libro quindi non è un tutorial sul 68, che del resto Rossanda succitata ci avverte essere contingenza irripetibile, ma neppure un libro generazionale, se lo paragoniamo a Porci con le ali e /o a Boccalone, essendo la genesi e le finalità molto diverse da questi ormai grandi classici pop nostrani. Sta dentro invece diverse altre questioni che hanno a che vedere con la determinazione cosmica più che storica, fisica, più che politica con cui questi pianeti, forse piccoli, ma luminosissimi, compiono la loro necessaria orbita, con tutte le sfaccettature che questo discorso comporta. In fondo essi compiono si, la loro rivoluzione, ma non riescono a far deflagrare il sistema e dovranno necessariamente tornare su loro stessi. E forse questo è già abbastanza o è il senso di una vita se non il tutto. Il libro, dunque, spariglia da questo punto di vista perché non è assolutamente un grande freddo, anzi. Non si presenta come riflessione ex-post con tutti i corollari che ne seguono, rifiuta di adeguarsi al giovanilismo e alla crudezza lessicali oggi imperanti per stare sul pezzo: tuttavia è ricco di vita, più che di realismo e dunque il 68 non è tanto nei fatti, quanto nella struttura connettiva della narrazione stessa. Il linguaggio cosi si pone quasi sul piano del sogno lisergico. Una sorta di dormiveglia esperienziale, che non è affatto ripiegato e imploso ma, come voleva la generazione dell’Immaginazione al Potere, prefigura il cambiamento come fatto della materia dei sogni, in parte lungo sogno erotico alla maniera di Beautiful Losers di Cohen,con tanta delicatezza in più, forse per la insistenza mitopoietica sulle figure femminili cosi innocentemente liberate e avanti. Possiamo cosi avvertire nel romanzo mille profumi in sottotraccia, dalle ruvidità di un Jack frusciante non ancora uscito dal gruppo, o di un giovane Holden armato però di cultura e consapevolezze fino ai denti, o persino, fatte le debite tare, dell’umanesimo del deamicisiano e tutt’altro che ammuffito libro Cuore, echeggiato sin dal nome Enrico del protagonista, dalla sostanziale unità di tempo e luogo, con fughe nell’altrove del momento, nella descrizione della classe come scala ridotta di classi sociali, appena acquerellate, ma secondo me veicolata molto efficacemente, dal tema delle famiglie che, confesso ho trovato, forse unica tra i vari commentatori, la parte per me più efficace del libro. Quella dove non solo convergono echi letterari, ma anche da tanto cantautorato di pregio. Sto pensando alla vecchia piccola borghesia del compianto Claudio Lolli, la cui ormai quasi completata liquefazione insieme alla torsione dell’istituzione familiare, rendono certamente irreplicabile un 68 a denominazione di origine controllata, almeno per ciò che concerne gli strati giovanili della popolazione.. Il tema della famiglia è posto come assoluto pscicanalitico più che unità di produzione, contro cui necessariamente si scagliano i giudizi e le ire dei giovani, ma nel contempo è molto ben contestualizzato sociologicamente. Quindi, famiglie che non vogliono avere rapporti con la Storia e forse per certi versi è ancora cosi, mentre questi figli vogliono leggere e scaraventare gli adulti nella loro storia genealogica e nella Storia pubblica. Il problema del fare i conti con il passato e il tempo più in generale è centrale in questo romanzo e decanta l’autobiografismo. Perché poi il tempo trascorso in mezzo è tanto dall’epoca delle militanze identitarie dunque la memoria è appunto sognata e cullata e rimasticata da un grande blob contenutistico che funge da filtro. Nella Italietta delle famiglie rattrappite su se stesse, da cui non si può che desiderare di fuggire eppure descritte con molta pietas, quale il tempo brusco per diventare adulti? Il sesso, la macchina, il viaggio all’estero? O saper decidere la parte giusta da cui guardare il mondo? O scoprire panni sporchi e segreti innominabili, quasi come in una fiction seriale? Nel libro gli strumenti sottintesi per l’adultità, i viatici, potremmo dire, sono da un lato la Speranza, perché è necessaria condizione di formazione e appunto, la sua diretta conseguenza, che è la fiducia nella trasmessibilità delle esperienze buone tra generazioni,sale anche della pratica culturale e nel libro, non casualmente incarnata parzialmente da alcuni insegnanti e dalla figura dello zio anarchico, non già dai genitori.
Forse come dice Rossanda, quando anche il maggio lascia fiacca e sporcata Parigi, diventa più facile fare abiure, cambiare idea, flagellarsi, pentirsi, distruggersi, piuttosto che ammettere semplicemente di essere stati battuti. E se non lo si fa, è difficile dribblare le tentazioni nostalgiche, a meno di non ammettere che i ponti con Itaca sono saltati, si è contribuito a farli saltare e necessariamente si devono inventare nuovi approdi. La difficile dialettica tra Liberazione e Rivoluzione continuerà, con altri mezzi, portata avanti quotidianamente dalle Donne, come l’oggi ci insegna e Sullo ne è talmente consapevole da idealizzarle parecchio nel romanzo e renderle poco inclini ad astrazioni e distrazioni, sagge e concentrate nel loro vivere il presente, anche quando sembrano sbadate, divinità quasi imperscrutabili nel loro prepararsi il futuro, concedersi, ritirarsi, ricomporsi in forma diversa.
Si chiude il romanzo con la sensazione che non abbia poi molta importanza chiedersi se i nostri protagonisti, i vari Alberto, Alfredo, Federico, Gigi, Edoardo, saranno poi forgiati dai loro primi drammi quasi da ritualità di passaggio, nel senso degli apocalittici o degli integrati. Il lascito di musica, parole, attitudine è ancora oggi li per tutti i giovani, forse appannato dalla bulimia consumistica, ma comunque vivo e vitale. I giovanissimi della lunga fase di capitalismo exploitante, succeduto alle varie declinazioni edonistiche, pur messi agli angoli, stanno riscoprendo il valore dei maestri, primo passo per trovare sentieri non ancora battuti.