Nel nuovo assetto uscito dalle elezioni di fine maggio, fra le questioni più importanti che ha di fronte l’UE vi è indubbiamente quella del lavoro. Gli aspetti del problema sono: la sua mancanza (disoccupazione) o l’insufficienza in diversi paesi, la diversità del suo trattamento economico, le condizioni pratiche in cui viene svolto, la precarietà e la carenza di garanzie occupazionali.
Quelli elencati sono problemi strutturali che non sono risolvibili con soluzioni improvvisate o con quelle usate fino ad ora. Tutta una serie di tali soluzioni, da sempre utilizzate, si sono dimostrate insufficienti e, se a volte hanno apportato qualche piccolo miglioramento, alla fine si sono rivelate solo dei palliativi. Andrebbe, inoltre, fatta una considerazione: per ognuno dei problemi elencati c’è una situazione molto diversa nei vari paesi dell’Unione.
La carenza di lavoro è più concentrata negli stati dell’area sud, i trattamenti economici più bassi li abbiamo nella zona est, così come le situazioni più accentuate di sfruttamento e la carenza di prospettive di sviluppo generale. Questa situazione di bassi salari coincide con le aree dove è avvenuta l’esternalizzazione di molte industrie e servizi da parte in particolare degli imprenditori dei paesi dell’area nord-ovest, italiani compresi. Il risultato di questo processo è che chi ha esternalizzato lo ha fatto per sfruttare i bassi salari al fine di competere sia all’interno dell’UE, sia all’esterno, ma ha portato i profitti nelle sue metropoli e non ha aiutato i paesi che ha sfruttato ad avere un sufficiente sviluppo. Questa, del resto, è la politica del neocolonialismo evidente o mascherato e il suo effetto in tantissimi paesi e non solo europei.
Un primo insegnamento da trarre è che i bassi salari non aiutano lo sviluppo, ma in effetti sono un grosso ostacolo ad esso. Diversi sono i trattamenti fiscali del lavoro e il conseguente potere d’acquisto dei cittadini dei vari paesi. Come pure i trattamenti previdenziali e l’insieme dei welfare state.
L’obiettivo di ridurre le diseguaglianze fra i cittadini dei diversi stati è giusto, ma non è semplice. La prima di tali disuguaglianze da affrontare dovrebbe essere il trattamento economico e normativo dei lavoratori. Se è vero che si va dai 286 euro mensili della Bulgaria ai 1.650 dell’Irlanda o ai 1.557 della Germania, se è vero che in 11 paesi le retribuzioni sono inferiori ai 600 euro mensili, se è vero che in Germania si lavorano1.350 ore, in Italia oltre 1.700; in Polonia 2.040, in Lituania e Lettonia 1.900, senza considerare le notevoli differenze nei livelli del welfare, il problema si presenta particolarmente arduo.
Dato che il costo del lavoro è alla base di quei processi di esternalizzazione che hanno consentito notevoli risultati positivi differenziali per una parte di paesi europei (Germania e Olanda in primis) non sembra facile convincere i rispettivi governi a mettere in forse questi privilegi in nome del principio comunitario.
Nelle settimane che hanno preceduto il voto europeo è stato pubblicato un documento con il quale Thomas Piketty e un gruppo di esperti propongono un’ipotesi di lavoro di un certo interesse. Si tratta del Manifesto per la democratizzazione dell’Europa. La proposta non è priva di limiti e presenta anche qualche incongruenza, ma ha un fattore che la distingue in positivo. Di fatto propone di acquisire le risorse per una politica economica con connotati più accettabili, più perequativi e con prospettive di sviluppo, attraverso la scelta di un’imposizione fiscale che finalmente attinga dai grandi patrimoni (giustificata dal fatto che l’imposta progressiva sugli alti redditi è passata dal 65% del 1980 al 40% di oggi), dai profitti delle grandi imprese (la cui tassazione è passata dal 45% del 1980 al 22% di oggi; ovviamente a livello medio europeo, in Italia le aliquote sono oggi maggiori della media europea), e faccia pagare ai maggiori inquinatori dell’ambiente (si ipotizza 30 euro per tonnellata di Co2 immessa in atmosfera).
Si tratta di una soluzione tante volte proposta dai partiti della sinistra non solo italiana e sistematicamente respinta, fino ad ora, dai gestori della politica economica e fiscale dell’Unione. Il documento Piketty ha, come si diceva, alcuni grossi limiti, ma merita attenzione da parte di tutte le forze democratiche e progressiste, e merita uno sforzo per superare tali limiti e farne la base per un’azione generale a livello comunitario.
di Gabriele Sarti