ArchivioAttualità

Orazione per il 65° anniversario dell’eccidio di Marzabotto

By 14 Ottobre 2009 No Comments

Buongiorno a tutti, ai miei colleghi e a voi e un ringraziamento in particolare al Sindaco di Marzabotto che mi ha onorato con questo invito.

Ho riflettuto al significato che poteva avere questo invito e ho pensato che si dovesse a un’idea, che io sia in grado di aiutare un po’ tutti, me per primo, a riflettere su questa strage, sull’evento tragico che ha colpito questi luoghi.

È un giorno di ricordo e di pianto, perché i morti, soprattutto i morti ammazzati in questo modo, si piangono. Però c’è lacrima e lacrima.

Ci sono lacrime che offuscano lo sguardo, che confondono, che impediscono di vedere, e ci sono le lacrime che tengono l’occhio sgombro, pulito, e che fanno vedere meglio. E dobbiamo piangere così. E così hanno pianto gli amici e i colleghi che mi hanno preceduto.

Di quale crimine parliamo? Perché è essenziale chiedercelo.

È evidente che non si tratta di omicidi, o di semplici omicidi di massa. L’omicidio colpisce l’individuo. L’omicidio è qualcosa di facilmente definibile e determinabile. È un atto che colpisce una persona o un insieme di persone. Qui non siamo di fronte ad un omicidio, lo comprendiamo subito, non è una questione semplicemente quantitativa. Può esserci anche un omicidio di cento persone, di duecento persone, di mille persone, se si intende colpire l’individuo.

Qui no. Qui anzitutto sono degli omicidi che sono avvenuti su un teatro, in un teatro, all’interno di una guerra. Sono allora crimini di guerra? Si tratta di crimini di guerra?

No, perché il crimine di guerra, così come è definito anche nel diritto di guerra – perché, ahimé, vi è anche un terribile, tremendo, diritto di guerra, che le comunità internazionali hanno sempre riconosciuto, riconoscendo con ciò che la guerra è in qualche modo inevitabile… Vi è un diritto di guerra.

Ma ci troviamo di fronte ad un crimine che offende il diritto di guerra? Il diritto di guerra regola i rapporti tra eserciti, regola il modo in cui vengono trattati i prigionieri.

Qui noi ci troviamo di fronte sì a una guerra, ma non alla violazione del diritto di guerra, non ad un crimine di guerra.

A che cosa ci troviamo di fronte?

È questa la drammatica questione, che va pensata.Ci troviamo di fronte ad un crimine contro l’umanità.
Contro l’umanità.

Questo avvertiamo, no? Avvertiamo che non è un omicidio, avvertiamo che non è un crimine di guerra, avvertiamo che non è un omicidio-massacro qualsiasi. Ci rendiamo conto che è un crimine contro l’umanità. E non è un fatto quantitativo. Avvertiamo che certi crimini ledono l’umanità, l’essere umano.

Questo avvertiamo. Questa è la forza del sacrificio di Marzabotto. Questo è la sua dimensione, in qualche modo metastorica. E su questo dobbiamo interrogarci. Perché, vedete?, diritto… crimine di guerra… I crimini di guerra si inseriscono in una situazione in cui sempre più le guerre, anche quelle che viviamo, e giustamente prima è stato ricordato, sono state indicate queste analogie fra la situazione di allora e l’attuale… Giusto.

Ci sono crimini di guerra che continuano, perché la guerra sempre di più assume nel mondo moderno un carattere terroristico.

Cosa significa?
Significa che non faccio più la guerra contro l’esercito, ma terrorizzo la popolazione.
Significa che il nemico non è più quel nemico che ha quella divisa eccetera, ma è la nazione nemica: il popolo diventa il mio nemico. E le ideologie totalitarie hanno sempre portato a questo esito: nemico non è più quel nemico politico in senso determinato, non è più quell’esercito contro cui combatto.

È il popolo il nemico.
Donne, bambini, vecchi. Sono nemici, esattamente come i soldati. La mobilitazione ideologica dei regimi totalitari ha sempre portato a questo. E continua a portarlo.

E tuttavia qui a Marzabotto siamo oltre questi limiti. Siamo appunto non a crimini di guerra, che derivano dal carattere terroristico della guerra moderna e contemporanea, ma siamo di fronte – e lo avvertiamo – a un crimine contro l’umanità.

Contro l’umanità.

È una fattispecie nuova di reato, che cominciamo a pensare anche da un punto di vista giuridico proprio con le stragi della Seconda guerra mondiale. Proprio con le stragi nazifasciste appare tremendamente questa nuova fattispecie di reato, appare questo reato davvero che ha l’aspetto del male assoluto, perché non si colpisce più l’individuo, non si colpisce più l’esercito, non si fa più neppure una guerra terroristica contro un paese, una nazione, già in sé cosa tremenda…

No. Si colpisce l’umano.
E questo appare nel mondo contemporaneo, nella civilissima Europa.

Capite?
Che cos’è? Quali sono le fattispecie di questo nuovo, straordinario crimine?

Quali sono le fattispecie?
Sono il genocidio. Il genocidio.
Il genocidio programmato, voluto, pianificato.

Ci sono state forme precedenti di genocidio, ma non così deliberatamente e programmaticamente voluto come dal regime nazista.
E tuttavia forme analoghe di genocidio continuano ad esserci.

Prima era stata citata la situazione africana. Ma che cos’è la cosiddetta pulizia etnica se non una fattispecie di genocidio? E di pulizie etniche continuiamo a parlare.

E allora ci viene la tremenda domanda: è mai possibile che questo tipo di crimini, una volta individuato nella sua dis-umanità, possa ripetersi?

Questa è la drammatica domanda che dobbiamo porci qui a Marzabotto, che è testimonianza di questa nuova, tremenda fattispecie criminale. Che qui si inaugura, durante la Seconda guerra mondiale, qui, e ad Auschwitz, e nei campi di concentramento, queste forme straordinarie di guerra terroristica e di crimine contro l’umanità.

Qui ci si spalanca di fronte davvero un abisso: è possibile che si ripetano? C’è qualcosa nella nostra natura che conduce a questo?

No, non credo che si possa parlare di un male radicale in questo senso. Di fronte all’abisso che ci si spalanca quando pensiamo questi crimini, bisogna comprenderne le cause che rendono la loro possibilità permanente.

E io credo che sul piano storiografico, sul piano politico, noi possiamo individuarle queste cause, e rifletterci sopra.

Rifletterci sopra con quelle lacrime che tengono lo sguardo pulito.

Vedete? Tutti questi crimini, nella loro sovra-umanità, vengono da una sistematica, nei paesi che li commettono, negli eserciti che li commettono, vengono da una sistematica educazione alla paura.

Vengono da una sistematica ricerca, di fronte alle difficoltà, alle crisi, alle contraddizioni, da una sistematica ricerca del nemico.

C’è la crisi. Ci sono queste difficoltà. Faccio fatica. Di chi è la colpa? Dove sta il nemico che mi fa stare male?

È l’altro il nemico, è quello che non è identico a me, il nemico. E di quel nemico che non è identico a me, di quell’altro, devo avere paura, lo devo combattere, lo devo negare.

È così, amici.
La storia questo ci deve insegnare.
Questa è la regolarità di fondo.

Questa paura che conduce alla violenza contro l’altro è la causa fondamentale di tutte le forme di violenza estrema, che possono condurre fino a quello che noi diciamo “crimine contro l’umanità”.
Non Marzabotto.
Non Stazzema.
L’umanità.

Questa è la causa. E si prepara lungamente, si educa per anni a questa violenza estrema.
Le stragi naziste non nascono durante la guerra. Auschwitz non nasce nel ’41-’42. Nel 1935 il regime nazista promulga le Leggi di Norimberga che legalizzano la sistematica spoliazione di ogni diritto e di ogni proprietà degli ebrei e di tutti gli oppositori politici. Ebbene, queste Leggi di Norimberga sono riconosciute dagli altri Stati europei. Il Olanda, in Belgio, eccetera, prima dell’occupazione, quando questi paesi erano paesi totalmente liberi, non potevano celebrarsi matrimoni tra tedeschi di razza mista: un tedesco in Olanda non poteva nel ’35 sposare una donna ebrea.

Che cosa ci insegna questo?
Che la passività nei confronti non della violenza estrema, ma delle cause che conducono, che possono condurre alla violenza estrema, è complice della violenza estrema quando si produce.

Che se non c’è attenzione internazionale, se non c’è senso di responsabilità internazionale nei confronti di paesi che preparano anche atti di violenza estrema, questa poi alla fine corre il rischio di compiersi.

È questa una grande responsabilità internazionale di tutti gli Stati, che devono difendere la legalità, che devono difendere l’umanità, le cui leggi, il cui diritto, devono essere espressione di una volontà ferma di combattere il tipo di crimini che ho cercato di indicarvi.

Ma vi è anche un altro aspetto.
Non vi è solo la passività e la complicità degli Stati di fronte a ciò che poi ha prodotto la violenza estrema dei nazisti.

Vi è anche una complicità interna, amici, e su questo giustamente il vostro Sindaco, il Sindaco di Marzabotto, ha richiamato l’attenzione.
Vi è una complicità che può riguardare, ahimé, tutti noi, tutti noi.

Vedete, recentemente ho letto un libro che si intitola “ Lo Stato sociale di Hitler”. Noi parliamo spesso di Stato sociale, noi vorremmo welfare – Stato sociale, no? C’era anche uno Stato sociale di Hitler. E lo Stato sociale di Hitler ha permesso a quel regime di godere, fino all’ultimo, praticamente fino all’ultimo di una reale adesione di massa, che in Italia non c’è mai stata perché Mussolini non è riuscito a fare lo Stato sociale di Mussolini.

E come si reggeva questo Stato sociale? Si reggeva attraverso operazioni di sistematica rapina, di sistematico ladroneggio ovunque i nazisti arrivavano, e di distribuzione di queste risorse alla popolazione.
Alla popolazione.

Ormai abbiamo tutti i dati, tutti gli elementi che confermano che fino a sotto i bombardamenti la gente in Germania appoggiava sostanzialmente Hitler, perché aveva un tenore di vita – fintanto che le loro città non sono state rase al suolo – un tenore di vita alto e diffuso. I soldati mandavano a casa dai vari paesi occupati pacchi e pacchetti. I treni erano pieni di beni che andavano distribuendosi alla popolazione.

Vi è una complicità interna. Dobbiamo sentirci davvero fino in fondo responsabili.

Questo vuol dire che non ci possiamo nascondere dietro nessun ordine, dietro nessun comando.
Che non possiamo confondere la nostra personalità e il nostro essere uomini all’interno di nessun gregge.
Che dobbiamo saper dire di no ad ogni ordine e ad ogni comando che sia ingiusto e che leda la dignità dell’uomo e della persona, qualunque essa sia.

Badate che la prima parola che testimonia la nostra libertà è esattamente questo: la capacità di dire no a ciò che ci sembra ingiusto e lesivo della dignità della persona.

In Germania questo era avvenuto. Questo il regime nazista era riuscito ad ottenere. E in parte anche in Italia. Il totale assorbimento nell’ordine dato delle coscienze personali.

E badate che una certa logica identitaria, per cui io sono me stesso e non ho niente a che fare con l’altro, è una causa che conduce a questa “obbedienza a prescindere” all’ordine dato. E si obbedisce spesso in cambio di sicurezza.

Tu mi dai la sicurezza e io obbedisco alle tue leggi, qualunque esse siano.
Tu mi dai la sicurezza e mi proteggi dall’altro, e io obbedirò alle tue leggi, qualunque esse siano, anche se le tue leggi prevedono la spoliazione degli ebrei, anche se le tue leggi prevedono appunto che i poveri che provengono dall’Africa muoiano ammazzati nel Mar di Sicilia. Non importa.
Tu mi dai la sicurezza. Io sono sicuro. Io sono sicuro e ti obbedisco.

Questo, la perdita di libertà, inizia nelle coscienze di ognuno di noi.
È qui che inizia la perdita di libertà.

E l’umano, amici, l’umano resiste solo lì dove non si è assorbiti, fagocitati nell’ordine dato.
È lì che inizia l’umano. Dentro ognuno di noi. E non è semplice. Non è facile. È facile adesso dircelo, ma è difficile fuori di qui farlo, ognuno di noi, nel proprio mestiere, nel proprio ufficio, nella propria scuola.

Ma è questo che ci insegnano le tragedie che stiamo ricordando oggi. È questo che ci insegnano le tragedie: a combattere quella presunta normalità per cui appunto noi siamo la nostra tribù, noi siamo la nostra identità, e qui dobbiamo essere sicuri, e le leggi servono soltanto a proteggerci…

No.
Le leggi servono a sviluppare i diritti umani.
Le leggi servono a fare accoglienza, a riconoscerci l’uno con l’altro. Certo, con fatica. Certo, anche con dolore. Ma le persone forti, gli organismi forti, sono quelli che sanno farsi altro, non difendersi dall’altro.
Farsi altro.

E molte volte la violenza contro l’altro è appunto segno di debolezza, segno di impotenza, segno di frustrazione. E non ne facciamo costantemente esperienza nella nostra vita, che sono i più deboli, i più fragili psicologicamente, quelli che hanno paura dell’altro? La paura non è segno di debolezza, di fragilità, di impotenza? E da lì nasce la violenza.

La violenza non nasce mai dalla forza.
La forza ti rende possibile convincere l’altro.
La forza produce responsabilità, capacità di convinzione. Non produce violenza.

Permettetemi di concludere.
Che fare?
Perché questo è un tema a cui tengo particolarmente, un tema che ha una dimensione, uno spessore anche più essenziale direi anche rispetto a quanto ho cercato e abbiamo cercato di dirvi.
Si ripete spesso, in situazioni come questa, che dobbiamo fare uno sforzo, dobbiamo cercare dopo sessantacinque anni, eccetera, di perdonare.

Proviamo, per concludere, a riflettere su questo grande tema.
Siamo qui di fronte a una chiesa, no? Questa è stata anche una cerimonia religiosa.

Perdonare.
È possibile in politica? È possibile nelle relazioni sociali, politiche, laiche nel senso letterale del termine, cioè che riguardano il nostro mondo quotidiano, profano, è possibile perdonare?

Io direi no, se per perdonare intendiamo davvero quello che c’è scritto ad esempio nel Vangelo.
In politica quel tipo di perdono non credo sia possibile.

Quel tipo di perdono che rispetto al nemico giunge fino a quel supremo atto che Gesù ci indica come esempio, cioè la parola più alta, davvero sovrumana, del Vangelo, davvero divina, direi, del Vangelo: ama il nemico.
Che significa: porgi l’altra guancia quando ti colpisce.

Ecco, questa misura così divina di perdono io credo che non sia possibile in politica.
È una idea che bisogna tener viva, che bisogna sentire, di cui diciamo che, facendo politica,dobbiamo sentire – facendo politica, nei nostri affari quotidiani, nel nostro impegno civile di ogni giorno – dobbiamo sentire questa nostra incapacità di porgere l’altra guancia e di perdonare in questo modo come una mancanza profonda. Dobbiamo sentire dolore di non poterlo fare. Non dire: non lo possiamo fare. No.

Dobbiamo sentire dolore di non poterlo fare. Ma non lo possiamo fare, se siamo onesti con noi stessi. Quella misura non è possibile.

Ma guai ad ascoltare l’invito del perdono, come spesso avviene, come fosse un invito a dimenticare.
Perché questo è il trucco, fra virgolette: bisogna riuscire a perdonare come significasse “dimentichiamo”.
No. Gesù non dimentica. Tant’è vero che dice: ama il nemico. Quindi sa che è un nemico. Ha di fronte un nemico. Lo sa. Non dice: mi sono dimenticato che è un nemico.

Quindi il perdono non significa comunque affatto dimenticare. Non può significare affatto dimenticare.
Anzi, per perdonare è necessario ricordare con ancora più intensità, passione e dolore, che se si volesse semplicemente un’opera di vendetta.

Questo è il punto fondamentale da capire.
Ebbene sì, forse non siamo capaci di perdonare come ci dice Gesù, ma siamo capaci di ricordare.

E ricordare è in qualche modo la forma nostra di perdono, perché nel ricordare che cos’è che ricordiamo?

Che cos’è che ricordiamo oggi qui a Marzabotto?

Ricordiamo l’incommensurabilità tra la colpa che qui è stata commessa e ogni ordine di pena.
Nessuna pena è sufficiente per quello che è stato commesso. Non c’è pena per crimini contro l’umanità.
Non c’è pena per crimini contro l’umanità.

E quindi non chiediamo vendetta. Non saremo capaci forse politicamente di perdonare, ma se ricordiamo non chiederemo vendetta, perché se ricordiamo, ricordiamo che quello che qui è stato commesso non può essere risarcito in nessun modo, che nessuna pena basterebbe.

Questo è un perdono laico.
Questo è un perdono politico.
Il ricordare è il nostro perdono.

E il ricordare nei termini che qui abbiamo detto, non il ricordare soltanto ciò che è stato, ma il ricordare le cause di ciò che è stato, essere attenti e responsabili nei loro confronti, perché quelle sì si ripetono continuamente e possono portare fino a quell’estremo.

E essere responsabili significa, e essere responsabili qui a Marzabotto significa che noi, davvero, non potremo ritenere questa Terra, questo mondo, e ormai siamo un mondo, e Marzabotto fa parte di un mondo, e tutti noi siamo globalizzati, volenti o nolenti… Non possiamo, dobbiamo dircelo, no, noi non riteniamo che si possa vivere in un mondo dove ci sono, anche soltanto ci fosse un solo angolo di inferno.

Noi, qui, questa è la nostra responsabilità.
Qui a Marzabotto questo dobbiamo dirci.

Ricordando quello che è stato, questo dobbiamo dirci.
Noi non riterremo umano un mondo fintanto che in questo mondo ci sarà un solo angolo di inferno.

E purtroppo non c’è un solo angolo di inferno a questo mondo.
C’è mezzo mondo che è ancora un inferno.
E questo non è sopportabile. Non è più sopportabile. E questo deve chiamare in causa ogni Stato, ogni governo, ogni organismo sopranazionale, ma anzitutto, per le ragioni che ho detto, la coscienza di ognuno di noi.

Grazie, amici.

MASSIMO CACCIARI
Sindaco di Venezia

ORAZIONE per il 65° anniversario dell’eccidio di Marzabotto
4 ottobre 2009

Nel sito del Comune di Marzabotto è reperibile anche il file audio.

{linkr:bookmarks;size:small;text:nn;separator:+;badges:p}

Leave a Reply