Non dev’essere stato facile per questo ensemble di giovani teatranti, che vengono da un pianeta emotivo speculare al nostro, affrontare il passaggio assai delicato tra essere riconosciuti rivelazione del momento e confermare la propria peculiare identità artistica, rimanendo tuttavia connessi con protervia alle proprie radici territoriali. Si sa che spesso nessuno è profeta in patria, eppure considerando il caso loro e dei cugini dello Stato Sociale, in qualche modo imparentati con l’humus generativo del movimento artistico affatto fermo, in verità, parrebbe proprio di veder smentito l’antico adagio. La pressione e l’attesa sono grandi, dopo i riconoscimenti piovuti per il Giardino dei Ciliegi, ma l’affetto e la fiducia del pubblico sono trasversalmente altrettanto vivi, anche quando non tutti sono proprio dentro i loro assunti o comprendono le loro motivazioni. Del resto, i nostri, sono anche quelli che, prevenendo qualsiasi appunto liquidatorio della famosa serie: fanno cose generazionali, hanno assunto come bandiera questa questione, portandola a valore, rendendola una vera mission organizzativa, pedagogica, esplorativa, formativa, forse politica.
L’altra grande conseguente fissa di Kepler è infatti riuscire a parlare di una generazione parlando ad una generazione e parlando di cosa? Parlando con quale lingua?
In questo senso, la presunta naivete di Kepler452, è desiderio di comunicare e coinvolgere, avere dalla propria parte, fette di pubblico forse non precisamente formate sulle pratiche teatrali, sui linguaggi alti. Senza per questo cedere alle lusinghe di un pop ad oltranza che si autorappresenti come dissacratorio.
La trasgressione è dunque , con sguardo dolente e antropologico, andare alla ricerca di dati di realtà cercando di scartare dal proprio solipsismo, dalla diffusa psicologia della cameretta, che affligge interminabili postadolescenze di quest’oggi confuso e crepuscolare. Non meraviglia che dopo oratorio S Filippo Neri, Arena del Sole abbia accolto le loro proposte, cosi in sintonia con lo slogan prescelto dalla Direzione ERT come rappresentativo della stagione:guardati intorno.
E intorno, quello che questi ragazzi educati e affilati come rasoi vedono e sentono, di lavoro in lavoro, è un generalizzato senso di perdita, che gioca un inedito match tra materialità delle cose ed inevitabilità delle mutazioni, del volgersi del tempo biografico della maturazione Si potrebbe forse parlare per il giovanissimo dramaturg Baraldi e per i suoi soci, di marxismo dello spirito, perché nel bene e nel male, sono il possesso, gli oggetti e forse le merci a perimetrare le nostre identità.
Ed essere sradicati da qualsiasi aggettivo o sostantivo di possesso, in questa società virtualmente aperta, in realtà vera selva oscura di smarrimento insondabile, come le efficacissime scene a pannelli scorrevoli, per lo più serrati, al massimo semi aperti a feritoia da sciabolate di luce, lasciano intendere, forse non è affatto liberatorio, ma rende …disturbati. O meglio matti, tout court, come il protagonista Nicola, sfidando il politycally correct, esclama all’indirizzo di quello che avrebbe dovuto essere il vero protagonista dello spettacolo, quell’F kafkianamente evocato, che è anche una sorta di spirito ancestrale, un feticcio, un uomo nero o negro, alto e magro come il marinaio conradiano del Narciso.
Se non incute terrore e quando si appalesa come specchio in schermo rivolto verso il pubblico e come voce da una cassa di risonanza trolley, geniale invenzione dello spettacolo, oppure ancora si intuisce aleggiante in fondo al buio delle quinte celate, certo è che ingenera smarrimento, specialmente nella centratissima Paola Aiello, capace di trovare , da vera deuteragonista dell’apparentemente più consapevole e “convinto” Nicola, i toni neutri dell’impanicamento e della rabbia veri, tanto da rammentare una fulgente Monica Vitti versione anni punto zero qualcosa. Già perché qui, tutti i presenti in scena, a partire da F che si denuncia con un tautologico io sono io, sono infatti loro proprio loro con tanto di indirizzo e codice fiscale: anche la spettatrice coinvolta sul palco a raccontare scarne note bio del nostro “bruciato”, suggerite dal diretto interessato in cuffia, viene accuratamente identificata , prima di poter accedere.
Pian piano, di divagazione in divagazione su uno spettacolo che non si può fare e che non si sa come fare, che non potrà finire bene, come la vita stessa, sembra suggerire Aiello in uno dei momenti più intensi della rappresentazione, dopo che tutte le carte e i papielli e le pratiche sono state spese e consumate nel tentativo di venire a capo di una questione di permessi di soggiorno, si dipana una storia, che non ha niente di romantico od esaltante o esotico, ma molto di grottesco.
Non ci sono barconi che affondano e cadaveri esibiti pour … epater les bourgeois, ma diapositive da un ombelico del mondo che è una periferia del mondo, sufficientemente brutta e anonima in maniera sconcertante da fare il paio con certi scorci simili dalle nostre contrade urbanizzate: la nostra ossessione occidentale di rendere tutto simile a noi in scala ovviamente peggiore, emerge tra le righe come il vero orrore di una sorta di ossessione classificatoria e definitoria della nostra civiltà.
Ma l’identità vera non è fatta di documenti, ma di narrazioni che si stratificano nella nostra coscienza, a volte forse leggermente fasulle o mitizzate, perché siamo a teatro ed è tutto finto, eppure condivisibile, come in certe canzoni di Vasco Rossi o di Jovanotti succede, forse le cose più vicine ad una rappresentazione che ci piace di noi stessi.
Perché questo spettacolo, anche se ci acchiappa concettualmente e ci punge nel vivo del nostro amor proprio politico con il sorriso disarmante da gatto del Cheshire di Nicola, che ci invita a considerare come in questo mondo di confini (e dunque siamo tutti, un po’ confinati e delimitati, sulla scena e fuori), le merci invece circolino liberissimamente e un tantino perversamente ovunque, non è tuttavia uno spettacolo appartenente alla schiera peraltro nobilissima di lavori con o sull’emarginazione, con o su categorie altre, che lavorino poi come professionisti in scena. Non è un lavoro che debba caricarci di empatia nei confronti dei migranti o dei cosiddetti barboni o dei malati mentali, che poi questa iperbolica concentrazione di “sfighe” in una sola misteriosa entità è anche la resa plastica di condizioni che possono toccare in varie proporzioni anche a noi, in un habitat cosi uniformato e spietato come questo, in cui sicuramente qualsiasi deus ex machina o entità soprannaturale si è distratta giusto un attimo. In maniera quasi sorniona, questo complesso lavoro riesce, con alcune acerbità che lo rendono tuttavia accattivante, ad essere metafisico come certi quadri di Saviano, nel momento in cui per esempio Nicola diventa il fool, il Pierrot lunaire della situazione, momento in cui, filologicamente può permettersi di sparare da dentro le cose più dure, che sono, guarda caso, anche le più buonsensaiole socialmente.
Un lavoro che ha anche la curiosa prerogativa di contenere l’ossimoro di scene che potremmo definire madri e sono contemporaneamente minimaliste, mirando dritte là al cuore del problema, che siamo noi, a non sapere veramente chi siamo e cosa facciamo, ed è questo l’abisso che ci attende ed è per questo che abbiamo paura del nostro uomo nero, necessario tuttavia a definirci, pur nella asimmetria della relazione. Insomma, regressione e diffidenza sociale fanno il paio.
Anche un canto della vergogna e del pudore in qualche modo, dunque, perché Nicola e soci sanno benissimo che toccare i nervi scoperti della nostra opulenza cosi stracciona, in fondo significa misurarsi con ciò che è fuori dal discorso pubblico, dal movimento politico mobile o fermo che sia, soprattutto dal senso di collettività e di emancipazione di cui siamo illuministicamente sgangheratamente eredi e significa appunto andare in una terra senza religioni, senza leaders e senza rappresentanti. Se prima abbiamo avuto il colonialismo, ora abbiamo la farsa della nostra accoglienza a fasi e correnti alternate, come sempre suggerisce l’ottimo lavoro di Longuemare. Dunque, si va in scena e nel mondo come singolarità, come individui: ma, in fondo, perdere le cose e le nostre identità, potrebbe essere anche, chissà, una prima tappa per evitarci le secche esistenzialistiche novecentesche, nelle quali l’inferno erano gli altri. Gli altri, che alla fine, senza spoilerare troppo il coup de theatre, andremo forse ad incontrare.
Chi scrive confessa di essersi commossa, come già mi è accaduto con altre pubbliche apparizioni dei Kepler , ma ho capito non essere buonismo il mio occhio lucido, ma un misto di pena e nostalgia che riguardava me stessa, i miei limiti, il mio stesso piangermi addosso, la mia impotenza, simile ai calci vani contro le scartoffie somministrati da Aiello in scena.
Di questo lavoro, che asciugato un poco potrebbe essere ancor più elegante di quanto non sia, si sta parlando giustamente tanto, soprattutto perché a mio avviso stabilisce una continuità ed una evoluzione con altre cose di Kepler, non tanto nel proseguire il discorso sulle marginalità e il degrado umano-relazionale, individuato come la big thing di cui parlare, quanto perché riesce ad essere corale a dispetto della calibratura apparentemente intimista.
Perdere le cose è anche un agile volumetto per Luca Sossella editore, un po’ diario di bordo di una lavorazione, ma anche no, pur trovandosi dentro le battute di scena, molto un diario dell’inverno del nostro scontento, della nostra noia e paura di fallire e da qui si comprende ancor meglio, quanto noi abbiamo bisogno di essere aiutati a casa nostra, magari da un piccolo grande uomo –ombra che è vivo e dalla sua scatola beckettiana grida la sua esistenza nonostante noi e le nostre paranoie sociali.
di Silvia Napoli