Passaggio del testimone. la mia famiglia dalla Resistenza alla ricostruzione
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di seguito il testo sintetico comparso sulla rivista Resistenza e nuove resistenze
Giovedì mattina 6 luglio 1944 Il Resto del Carlino usciva con un trafiletto collocato centralmente a pagina 2, in cui si leggeva: «Fucilato sul posto perché trovato armato», poi veniva spiegato che: «Mercoledì mattina alle ore 11,30 circa, un agente della Polizia Ausiliaria, transitando per via S. Stefano, notava un individuo in bicicletta, dal fare sospetto. Gli si avvicinava e, perquisito, lo si trovava in possesso di una pistola. L’individuo, che risponde al nome di Adelmo Tosi fu Giovanni, e di Gavina Enrica, nato ad Anzola dell’Emilia, domiciliato in via Emilia Ponente 119, veniva condotto dall’Agente alla Caserma della Polizia Ausiliaria, in via Fondazza. Poco dopo il Tosi, riaccompagnato sul posto dove era stato trovato, veniva fucilato».
Questo annuncio era stato inserito dalla redazione del quotidiano bolognese in un più ampio articolo di sostegno alle forze germaniche di occupazione e alle misure repressive da esse intraprese. “Misure punitive”, si legge, quali la fucilazione di dieci militanti comunisti per rappresaglia e come conseguenza dell’uccisone di un militare tedesco avvenuta in via del Pratello. Il rapporto di dieci a uno doveva risultare esemplare per intimorire la popolazione, suscitare condanna e mostrare disprezzo per coloro che osavano ribellarsi all’occupante tedesco e allo stato fascista.
Adelmo morì a 33 anni in una calda mattina di luglio. Aveva scelto di battersi per liberare la sua città e l’Italia intera proprio da quell’oppressione e da quel giogo. Certamente la sua vita era cambiata quando, con l’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania, fu chiamato a prestare servizio in fanteria nonostante fosse stato in precedenza dispensato dall’obbligo di leva, in quanto quintogenito di sette fratelli, due dei quali, Ettore e Armando (mio nonno), avevano prestato servizio militare nella Grande Guerra e a ciò si aggiungeva la vedovanza della madre Enrica, che aveva perduto il marito Giovanni dieci anni prima, nel 1933.
Non avrebbe dovuto fare il militare, ma la guerra determina eccezioni e venne lo stesso chiamato alle armi nel maggio del 1942. Un impegno che però dovette concludersi presto, tra il luglio e il settembre del 1943, con la caduta del fascismo e con l’armistizio firmato da Pietro Badoglio.
Così finì in Germania disorientato e confuso, come tanti internati militari italiani, sotto il controllo e il disprezzo degli ex alleati tedeschi. Molto probabilmente per poter tornare a casa dovette firmare l’adesione alla Rsi. Una volta fatto ritorno a Bologna, si accorse subito che nemmeno qui poteva sottrarsi agli obblighi imposti dai tedeschi e dai fascisti, ai quali non voleva più sottostare. Fu allora che l’esasperazione lo spinse all’autolesionismo, si ferì volontariamente a un ginocchio e venne ricoverato all’Ospedale Putti. In quella situazione egli prese contatti con un gruppo di partigiani comunisti attivi a Bologna, convinto che la sua collaborazione sarebbe stata utile sia a sé che al proprio paese, in una prospettiva di pace, di libertà e di emancipazione.
Nessuno della famiglia Tosi, fino ad allora, si era interessato di politica e tutti possedevano un’istruzione appena elementare che non avrebbe permesso letture complesse e prolungate. Adelmo conviveva con la madre Enrica in un appartamento non molto distante da quello in cui abitava il fratello Armando, domiciliato in via Decumana insieme alla moglie Rodolfa e alle figlie Alma e Isora. Erano una famiglia operaia: Adelmo faceva l’idraulico, Armando il muratore, Rodolfa l’operaia al mercato ortofrutticolo, Alma l’operaia in un laboratorio di bachelite situato nei pressi di via Riva Reno, Isora (mia madre) era ancora bambina.
Adelmo stava molto attento a non lasciar trapelare nulla ai famigliari del suo operare clandestino, tenendoli al riparo da ogni presumibile tragica conseguenza. Il ruolo che egli aveva assunto nella sua formazione partigiana, in seguito denominata “Prima Brigata Irma Bandiera Garibaldi”, era di “ispettore organizzativo”. Doveva trasmettere informazioni e creare collegamenti in un momento cruciale per la lotta partigiana nel bolognese, affinché le azioni dei combattenti potessero riuscire e favorire l’imminente insurrezione popolare preparata per l’estate del 1944. Probabilmente egli stava operando in tal senso la mattina del 5 luglio 1944, attraversando via S. Stefano in bicicletta, consapevole del rischio di incontrare agenti delle forze di sicurezza al servizio del regime. Accanto alla Guardia Nazionale Repubblicana, a Bologna operavano la 3a e la 23a Brigata Nera, la Compagnia Autonoma Speciale (Cas) di Renato Tartarotti e il Reparto d’Assalto della Polizia al comando di Alberto Noci.
Stando ad alcune testimonianze prestate al processo contro il questore Giovanni Tebaldi, avvenuto nel 1954, Adelmo fu seguito dagli uomini di Tartarotti (guardia del corpo e uomo di fiducia di Tebaldi) e ucciso immediatamente in via S. Stefano. Una delle tante esecuzioni sommarie a cui era dedita la Cas. Il trafiletto riportato dal Carlino doveva rispondere al compito che il quotidiano bolognese aveva assunto in quegli anni, cioè di propagandare la correttezza delle procedure della polizia nella Repubblica Sociale Italiana, in particolare a Bologna. Bisognò attendere il 19 aprile 1945 perché uscisse l’ultimo numero della testata sotto il controllo della Rsi e che, dopo ciò, assumesse il nome de Il Giornale dell’Emilia, mantenendolo fino al 1953.
Il 5 luglio 2024 il sacrificio di Adelmo Tosi compirà ottanta anni esatti. Una lapide lo ricorda in via S. Stefano, posizionata all’altezza del civico 82, di fronte alla chiesa della Santissima Trinità (civico 87). Una sua foto è presente anche nel Sacrario dei Partigiani, posto sul muro del Palazzo Comunale, lo stesso luogo in cui erano avvenute tante esecuzioni di partigiani a opera di militari appartenenti alla Rsi.
Nove mesi dopo la sua morte l’Italia venne finalmente liberata dalla dittatura fascista e dall’occupazione nazista e, terminata la guerra e i bombardamenti, iniziarono gli anni difficili della ricostruzione. Il 2 giugno 1946 nacque la Repubblica Italiana, il 25 giugno venne insediata l’Assemblea Costituente che portò alla Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Una Costituzione Antifascista, la nostra, che non è solo un insieme di norme, vincoli e consuetudini, essa è sostanza, presidio e testimonianza che le generazioni si sono trasmesse nel tempo, affinché la storia non tornasse indietro e le conquiste sociali di libertà e di emancipazione potessero compiersi sempre meglio e sempre di più. E ciò dipende dalla nostra volontà e perseveranza. Una costante che si nutre di memoria e di storia.
La triste vicenda di Adelmo confluì anche nella vita della propria famiglia, che fu colpita da due altri gravi lutti, la morte di Alma durante il parto (per un errore dell’anestesista) il 20 gennaio 1947 e quella di Rodolfa, morta sul lavoro (travolta da un autocarro) il 7 settembre 1950. Per mio nonno Armando furono anni veramente difficili: prima la perdita del fratello Adelmo, poi della figlia maggiore Alma e infine della moglie Rodolfa. Gli era rimasta solo mia madre Isora, poco più che bambina. Eppure, non so come, ma reagì, si risposò e ricostruì sé stesso in un paese distrutto e pieno di macerie. Non ho potuto conoscere personalmente mia zia Alma e mia nonna Rodolfa perché sono nato nel 1958, ma ne ho fatto esperienza attraverso la forza di reazione e di resilienza di mio nonno Armando.
Rodolfa in qualche modo aveva ereditato da Adelmo il “testimone” della lotta e della emancipazione, persistendo nei suoi stessi ideali, e forse ancora di più. Ideali materiali e sociali senza dottrina e ideologia. Dopo la guerra aveva continuato a lavorare al mercato ortofrutticolo come operaia e gli anni di esperienza l’avevano portata alla qualifica di “caporeparto”. Si era iscritta all’Udi e abbonata alla rivista “Noi Donne”, dimostrando una grande consapevolezza del ruolo fondamentale che le donne stavano avendo nella ricostruzione di un paese distrutto dalla guerra, rivolgendo con fiducia lo sguardo al domani.
Nella foto qui sopra le compagne di lavoro giunte al funerale di Rodolfa le porgono un ultimo saluto, non un addio ma una promessa di continuità e di futuro. Questo comunismo vissuto non era una mera ideologia, ma una “forma di vita”, un collegamento tra i momenti dell’esistenza e le esperienze di lavoro che, pur lasciandoli ambiti diversi, li connota entrambi come conservazione e sviluppo della vita, del suo materiale e concreto benessere. Per questo una morte sul lavoro è e sarà sempre un violento crimine verso l’umanità. Non sarà mai derubricabile come una tragica “fatalità”.
Così anche per Armando il lavoro divenne una catarsi che trasformò la tristezza in speranza. Il 1956 non fu solo l’anno in cui fu ristrutturato il Sacrario dei Partigiani in Piazza Nettuno, nella forma in cui è visibile ancora oggi, ma divenne anche il secondo degli otto anni che vennero impiegati per la costruzione dell’Ospedale Maggiore di Bologna (1955-1963). Sostituiva quello distrutto di via Riva Reno. Armando lavorava come operaio edile in quei cantieri non molto distanti da via Decumana, dove risiedeva. Poco dopo raggiunse l’età per la pensione.
L’immagine che qui propongo ai lettori è un ritaglio tratto da una foto che ritrae un gruppo di operai in festa dopo una Bandiga, offerta loro durante una delle fasi di costruzione del Maggiore, nel 1956. Armando è al centro di questo gruppo di giovani lavoratori e pone una mano sulla spalla di quello davanti lui, quasi a trasmettergli qualcosa, quasi a volerlo incoraggiare. Non è certo un’etica della pura intenzione.
Abbiamo perso l’abitudine a pensare in grande, ma forse abbiamo il dovere di ricominciare a farlo. E allora perché non ripensare a György Lukács, filosofo ungherese, al suo Storia e coscienza di classe (1923) in cui affermava che la classe operaia è la sola parte (della società) che può pensare (dialetticamente) il tutto come un tutto?
È forse un caso che il premier ungherese Viktor Orbàn abbia fatto rimuovere nel 2017 la statua del filosofo suo connazionale da un importante parco centrale di Budapest? Temi come la morte sul lavoro, la malasanità, il lavoro povero, sono oggi più che mai attuali. Come lo erano ottanta anni fa, in un’Italia appena liberata dal fascismo.
di Pierluigi Morini