di Annalisa Paltrinieri
Tra i tanti anniversari che si celebrano nel 2018 ci sono anche i quarant’anni della Legge 180/1978 meglio conosciuta come legge Basaglia. Decisamente riduttivo definirla riforma, tante e profonde le implicazioni in essa contenute in materia di «accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori e volontari». Meglio, quindi, definirla rivoluzione. Perché di questo si tratta.
Innanzitutto occorre ricordare che prima di allora la legge di riferimento era del 1904, i manicomi erano alle dirette dipendenze del Ministero dell’Interno e che, se a seguito di un ricovero coatto la permanenza in manicomio avesse superato i 30 giorni, si sarebbe stati iscritti al casellario giudiziale con conseguente perdita dei diritti civili. Non solo. Era possibile essere internati per tre motivi: se sussistevano situazioni di pericolo per sé o per gli altri ma anche per pubblico scandalo, mostrarsi nudi o dare fastidio, per dire.
Ne parliamo con Michele Filippi, medico psichiatra, che è diventato tale proprio grazie alle idee di Franco Basaglia…
Ho iniziato a lavorare nel 1974 e sono stato fortunato perché la Provincia di Bologna già nel 1956, tra le prime in Italia, decise di sottrarre quattro reparti dal manicomio per farli diventare luoghi di ricovero volontario, case di cura pubbliche, così da evitare le conseguenze penali e civili previste dall’ordinamento. I giovani medici come me venivano dirottati sul territorio per seguire le persone dimesse e per cercare di prevenire i ricoveri nel caso non fossero stati necessari. Ho vissuto quindi dall’inizio e direttamente quel periodo, portatore di cambiamenti straordinari nella psichiatria e più in generale nella società.
Perché è così importante la Legge Basaglia?
Innanzitutto per alcuni capisaldi: un malato mentale non è un criminale e non deve essere recluso, anche perché qualunque terapia è destinata al fallimento in una situazione di privazione della libertà; non ci deve essere violenza nel trattamento; occorre considerare la persona nel suo complesso, la sua storia, le sue potenzialità e le sue risorse, non solo la malattia. In questo modo i pazienti psichiatrici passano dal manicomio, un luogo in cui vengono privati dell’identità personale e dei diritti civili, a una situazione in cui recuperano potere: si fanno assemblee, si prendono decisioni assieme. Il punto più forte del pensiero di Basaglia, ma anche quello di più difficile applicazione, sta proprio nel considerare il malato come una persona e di cercare di entrare in relazione con questa secondo una prospettiva fenomenologica. Consideriamo il fenomeno, appunto, sospendiamo interpretazioni che possono solo incasellarla. Questo approccio riuscì a mobilitare tante energie.
Si è detto nella società, non solo nella psichiatria…
Sì, era l’epoca della nascita dei consultori, dell’attivazione dei servizi territoriali. Il suo libro L’istituzione negata, pur essendo un testo tecnico, divenne un best seller del movimento del ’68, un manuale per chi voleva cambiare il mondo: non solo gli ospedali ma anche le scuole, le fabbriche, le prigioni. Il manicomio in particolare venne considerato non riformabile.
Torniamo a Basaglia. Interessante che i suoi testi venissero letti e apprezzati anche fuori dall’ambito specialistico.
Perché tutto il suo pensiero diventava immediatamente un progetto politico. A onor del vero molto merito va riconosciuto anche a Marco Pannella che fu promotore di un referendum per l’abolizione tout court dei manicomi. Se fosse passato, la chiusura dei manicomi sarebbe avvenuta in una situazione di totale vuoto normativo. Così, attorno alla Legge Basaglia si incontrarono la sinistra DC, il PCI, il PSI, i sindacati e la legge fu approvata in gran fretta.
E ha funzionato?
A macchia di leopardo. Non è solo una questione di sud/nord. Ma il fatto che in alcune realtà del nostro Paese abbia funzionato significa che può funzionare.
Ed è ancora attuale?
Sicuramente i capisaldi di Basaglia sono ancora gli stessi oggi. A cominciare dalla parola integrazione. Ma i servizi sono spesso logori, sovraccarichi perché oggi non si rivolgono più solo ai pazienti con i disturbi più gravi, ma a tutta la popolazione affetta da depressione, ansia, insonnia, un range via via sempre più ampio. L’obiettivo di oggi è quello di soddisfare i bisogni primari come avere una casa e un lavoro. Ma non basta, occorre operare nella prospettiva della recovery, una parola inglese che ha bisogno di molte parole italiane per essere spiegata. In sintesi significa riprendere in mano la propria vita. Si tratta di una nuova sfida: non solo ridurre i sintomi ma operare per un inserimento sociale vero, fatto di dignità e di identità. Non basta che il paziente psichiatrico se ne stia tranquillo a fare le sue cose nella sua casa. Occorre che si riappropri della sua vita. Questo comporta una nuova rivoluzione, un nuovo radicale cambiamento perché i servizi, tranne alcune lodevoli eccezioni e anche nelle migliori situazioni, sono animati da un atteggiamento un po’ paternalistico.
Qual è la strada?
Una risorsa che ha crescente attenzione e sviluppo è il “supporto tra pari”: il ruolo che numerosi pazienti psichiatrici possono avere per orientare gli altri a trovare soluzioni.
Viviamo in un’epoca in cui quotidianamente dobbiamo ricordarci che i diritti non sono acquisiti una volta per sempre. È così anche per la psichiatria?
Certo. Rispetto, considerazione, opportunità adeguate di cura e di vita non si ottengono solo grazie a una legge, ma richiedono un costante impegno umano, culturale e professionale. Quanto alle leggi occorre stare in guardia. Sono depositate in parlamento diverse proposte di integrazione e miglioramento della legge 180, ma c’è il rischio che vengano approvate misure che si limitano a dilatare la possibile durata del Trattamento Sanitario Obbligatorio.