Cultura

Che bella età, la grande età.

By 17 Dicembre 2018 No Comments

Una riflessione simile davvero ad uno squarcio di luce deve aver attraversato Nicola Borghesi e i suoi accoliti di Kepler452, di fronte al materiale umano su cui e con cui lavorare in maniera laboratoriale per il nuovo progetto natalizio, chiamiamolo così, che l’Associazione Liberty, nell’ambito della sua stagione Agorà, è solita proporre al suo affezionato pubblico- sostenitore ogni anno. Se nel 2017 si trattò di misurarsi con i giovanissimi dell’Istituto Keynes di Castelmaggiore e con il calco rappresentato dall’inchiesta pasoliniana Comizi d’amore, stavolta tocca agli over e un tot di tutta l’area centri sociali della Bassa, chiamati in modalità “spericolata” a costruirsi pure il canovaccio.

In fondo, gli anziani, sono i ragazzi del secolo scorso e dunque, anche il loro oggi di pensionati di paese, va storicizzato.

La Storia, cosi costantemente osteggiata nelle sedi decisionali pubbliche, è divenuta una esigenza più che una disciplina, propria del fare comunità: per affrontare sfide diverse e sapersi evolvere, è bene ogni tanto fare reset e andare a guardarsi indietro per scoprire, quasi rivelare a noi stessi, ciò che ora siamo sulla base di quanto si è edificato o distrutto ieri.

A proposito di fili di collegamento e di comunità, Elena Digioia, direttrice artistica della stagione Agorà che scalda i freddi inverni della nostra pianura metropolitana con programmazioni palpitanti di stimoli, autentica donna e professionista di cuore e di testa, non si lascia sfuggire opportunità di tracciare percorsi riconoscibili e spostare confini dentro questo campo partecipato.

Cosi, vengono riprese, su suo suggerimento, suggestioni dal poeta Roversi, già protagonista a sua volta, di un progetto speciale nella scorsa stagione, oggi nume tutelare e genio del luogo per questa esplorazione della seconda età ingrata della vita dopo l’adolescenza: o forse no? Che cosa ci dona, che cosa ci toglie, l’età avanzata? Perché, non possiamo più nominarla come vecchiaia? Forse per un qualche vezzo ultra salutista- geriatrico di stampo americano, basato sulla rimozione di qualsiasi fisiologica criticità, per l’attitudine imbalsamatoria che oggi ci affligge tutti?

In realtà, il fatto è che vecchio è sinonimo di anacronistico, malandato, inutile, da rottamare, come sappiamo e invece gli anziani di oggi se non possono essere protagonisti, non ci stanno comunque a divenire invisibili, trasparenti e nello stesso tempo ad essere considerati un ostacolo, un peso morto per le generazioni più giovani.

Ci sono poi territori e territori: le stesse condizioni esistenziali si articolano molto diversamente in base al loro dove di appartenenza. Il dove sono in questo caso otto comuni dell’Unione reno Galliera, per un totale di undici centri anziani a tesseramento Ancescao coinvolti nel progetto, il luogo dell’azione collettiva, la mega bocciofila di Spietro in Casale e il quando, a ingresso libero, domenica 16 dicembre alle 17.

Per mesi , Nicola Borghesi ed Enrico Baraldi, regista e drammaturgo di Kepler hanno frequentato questi centri, hanno sentito tante storie, hanno ricavato distillati biografici da tante persone diverse, che non si sono mai incontrate tutte insieme per comprensibili difficoltà logistiche, hanno tessuto una loro trama fatta di chiacchiere, fiducia, giochi di carte, pienamente accettati nella loro palese disomogeneità al contesto, loro i nipoti di città colti e privilegiati a confronto con ex giovani ambosessi tra i 67 e i novanta , con un livello di istruzione tra la quinta elementare e la seconda avviamento , un passato di risaie, campi, fango, piccoli laboratori artigiani, militanza comunista, spesso e volentieri, persa però in un limbo remoto della memoria tra pubblico e privato.

Si potrebbe dire in questo caso che la gioventù se n’è andata insieme non tanto agli ideali, quanto proprio a forme e pratiche non si sa bene neppure come, bocciate da quella maestra severa che è la Storia, che del compito complesso e pieno di domande trabocchetto affidato a quella classe, ha salvato fino ad aggiornamento, un po’ di sviluppo economico e benessere e un’epica commossa della Resistenza, dei suoi canti testimonianza e delle sue leggende e una memoria indelebile della cosa più brutta che c’è , la Guerra.

Ciò che resta è una vita laboriosa e onesta senza grilli, che poggia oggi più che sui ricordi, su una lotta continua e dialettica tra memoria e oblio, rimozione non si sa quanto forzosa e necessità di mantenersi presenti a se stessi proprio con l’esercizio costante del ritrovare il proprio passato, senza che forse mai, i più giovani si chiedano quanto anche questo possa diventare una gabbia dolorosa , laddove magari si possano intravedere margini di reinvenzione e libertà personali fuori dai dover essere anche di genere che troppo hanno scandito le loro esistenze. Non grandiose, forse, ma così marchiate dai grandi eventi e cosi inscritte in un destino di appartenenza sociale quasi più forte di quello biologico, che apparentemente sembra impossibile da confrontare con lo sfaldamento e la frammentazione dell’oggi. Cosa sarà mai questo avere tutto odierno che non è mai abbastanza? E non è che per caso la solitudine, sia un dato interessante da cui ripartire per trovare ponti percorribili tra generazioni? La dove la solitudine è un dato quasi scontato di una condizione appartata, improduttiva e vegliata dalla superbadante televisiva, qui, tra i giovani, si vive la solitudine, del competere e soccombere, sentirsi inadeguati e scartati a prescindere dalla normalità, ormai chimera sociale, più che target negativo, come per esempio evidente nel recente e bel lavoro della pluripremiata compagnia Taglierini Deflorian visto all’Arena del Sole.

Insomma, questo spettacolo corale, recitato quasi a braccio da 18 anziani o diversamente giovani, che fanno in maniera quasi paritaria tra uomini e donne, manco fossimo in una repubblica del Rojava una bella mole di iniziative auto organizzate per imbrigliare il tempo ed impedire che scivoli via, si potrebbe anche leggere, considerata la presenza in scena di tre attori della Compagnia, in vesti di maieuti, mentori e autobiografi da cuccioli, come un malinconico passaggio tra realismo socialista e realismo capitalista, dove la Memoria, più che nei caffè Alzheimer o più poeticamente Amarcord, serve invece ai nipoti per dirsi che altri mondi sono possibili, anche se non necessariamente quelli di prima forse un filo ideologicamente, ambientalmente e antropologicamente insostenibili. La grande Età cosi è Epifania, che si rivela a se stessa, come tutte le età, che comprendiamo non mentre le stiamo attraversando magari solipsisticamente, ma nel confronto e nel rispecchiamento con gli altri, tra Storia e, appunto, storie. Se la Società è un organismo vivo, affronterà anche grazie a chi fa teatro, questo passaggio dalla Resistenza alla Resilienza a dimostrazione del fatto che non è stato vano far studiare figli e nipoti e che l’inverno del nostro scontento non passerà facilmente se non lo si vivrà come responsabilità condivisa e non si troveranno parole comuni per dirlo.

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