Attualità

Dobbiamo essere grati a chi ci ha regalato la libertà e la Costituzione

By 18 Aprile 2020 No Comments

Intervista a Matteo Zuppi

Matteo Zuppi, classe 1955, è stato ordinato sacerdote a 26 anni. Viceparroco prima e poi parroco nella Basilica di Santa Maria in Trastevere a Roma e successivamente parroco nella parrocchia dei Santi Simone e Giuda Taddeo a Torre Angela, nella periferia della capitale. Dal 2000 al 2012 assistente ecclesiastico generale della Comunità di Sant’Egidio. Nel 2012 viene ordinato vescovo ausiliare a Roma e nel 2015 Papa Francesco lo nomina arcivescovo di Bologna. È del 2019 la creazione a cardinale.

Quali sono i suoi primi ricordi di ragazzo del 25 aprile?
Sono romano e il 25 aprile, istintivamente, è associato alle commemorazioni dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, compiuto il 24 marzo del 1944, e della battaglia di Porta San Paolo del 10 settembre del 1943, uno degli episodi più drammatici della Resistenza romana. Sono i luoghi della sofferenza, durante la guerra nella mia città. A Roma non c’è stato lo stesso coinvolgimento della popolazione che c’è stato al nord, per ovvi motivi. Ma questi che ho citato, sono i luoghi della memoria viva. Un’altra data alla quale sono molto legato è quella del 16 ottobre 1943, il giorno del rastrellamento degli ebrei romani, una delle pagine più tragiche del nazifascismo nel nostro Paese, una data che deve essere una memoria per tutta la città, non solo per la comunità ebraica. Tornando al 25 aprile, penso che si tratti di una ricorrenza che ha corso il rischio di essere vissuta come una festa di parte, a volte retorica. Al contrario, non dobbiamo dimenticare che è la festa di tutti e celebra i valori fondanti del nostro paese. Dobbiamo essere grati, infatti, a quella generazione che ha vissuto la guerra e combattuto per la Liberazione, perché ci ha regalato la Costituzione e 75 anni di pace. Lo spirito, oltre che la lettera, della Costituzione, è un regalo sofferto e dolorosissimo, ma che ci consegna una visione dello Stato e della politica in grado di unire persone e pensieri anche molto diversi tra loro. È un’eredità preziosissima che è per tutti. Questo comune sentire, capace di unire idealità diverse per il bene del nostro paese e di superare le parti, è ciò che ci unisce e rappresenta un’enorme ricchezza perché in grado di dire e dare ancora moltissimo.
Nel suo calendario di uomo di chiesa sono presenti, quindi, anche le solennità civili, oltre a quelle religiose. Ricordiamo bene la sua partecipazione alla Festa del Primo Maggio, poco dopo essere arrivato a Bologna.
Certo, la Chiesa vive nella città degli uomini e gli appuntamenti della città degli uomini sono quelli che uniscono tutti. Ricorrenze come la fine della guerra e la Liberazione dell’Italia e dell’Europa dal nazifascismo sono davvero importanti, perché tutti vi si possono riconoscere.

Come si spiega che persone che si dichiarano cattoliche e praticanti non vivano come una contraddizione l’essere razzisti?
C’è il Vangelo che dà delle indicazioni evidenti: l’altro – chiunque esso sia – è il mio prossimo e come tale lo devo considerare. Non ci sono dubbi interpretativi. E poi, peraltro, i cristiani sono chiamati ad amare i propri nemici, cioè a non averne, perché, se tu ami qualcuno, quello immediatamente smette di essere un nemico. Purtroppo, oggi, la nostra cultura, intesa come capacità di interpretare la realtà, è debole e spesso non sa indicare risposte vere alle semplificazioni caricaturali dettate dalla paura. A questo riguardo, credo che il mondo cattolico debba fare uno sforzo perché, dal Vangelo e dalla sua pratica, scaturisca una cultura che spieghi la realtà in cui viviamo e sappia accrescere una conoscenza e una comprensione più profonde e umane del reale. L’odio e il razzismo, che altro non sono che forme di paganesimo, emergono quando il cattolicesimo è più debole.

Quanto riesce a essere influente la Chiesa in questo percorso di crescita, di conoscenza, di educazione?
La Chiesa è debole perché c’è un cambiamento sempre più rapido nel mondo e spesso non si è capaci di starne al passo. C’è in atto una sorta di lotta impari: da una parte ci sono delle agenzie di conoscenza capaci e rapidissime, dall’altra abbiamo dei sacerdoti, spesso anziani, legati a linguaggi e modalità a volte lontane e poco comunicative.

Come se ne esce?
Seguendo l’indicazione chiarissima di Papa Francesco: edificando una Chiesa che sappia guardare al mondo con simpatia e attenzione, cioè con lo sguardo del Concilio, consapevole che tutto quello che è umano, le gioie e i dolori, le speranze e le angosce, la riguarda. La storia non è un semplice accidente, ma in essa comprendiamo il mistero di Dio, si rivela Gesù e vi sono i tanti semina che bisogna saper cogliere, i segni dei tempi da riconoscere.

A proposito di Concilio, lei si sente erede del cardinal Lercaro?
Mi sento erede di tutti. La Chiesa è una tradizione e io ne faccio pienamente parte.
Il cardinal Lercaro aveva detto cose importanti contro la guerra che, a mio parere, sono state riprese solo di recente da Papa Francesco, quando ha condannato anche il possesso e il commercio delle armi, non solo l’uso.
È stata data davvero troppo poca enfasi alle parole di Papa Francesco a questo riguardo. La sua presa di posizione dovrebbe portare a conseguenze profonde e a operare scelte veramente importanti.

A proposito di guerra e di pace, lei è stato protagonista di una “diplomazia alternativa” in scenari importanti per conto della Comunità di Sant’Egidio. È un’attività che continua a praticare? 
Pochissimo, purtroppo, anche se mantengo un legame profondo con le attività della Comunità.

Tornando al 25 aprile, c’è un pensiero particolare che desidera condividere?
Vorrei rendere omaggio ai soldati inglesi e polacchi, morti nella nostra terra perché potessimo essere liberi. Soprattutto mi colpisce la scelta dei ragazzi polacchi, che hanno deciso di affermare la loro identità di Nazione, partecipando alla guerra a sostegno delle forze alleate per regalarci la libertà e i valori della giustizia e dell’uguaglianza.

di Annalisa Paltrinieri