Cultura

Genere, Antifascismo, Classe. Le molte anime tutte resistenti, del festival bolognese GenderBender, edizione Microcosmi.

By 8 Febbraio 2019 No Comments

I generi si possono declinare , si possono moltiplicare, si possono giocosamente mettere in discussione, soprattutto si devono rispettare e la loro battaglia per l’acquisizione e l’ampiamento dei diritti può e forse deve necessariamente trasformarsi in una battaglia per l’inclusione, la democrazia e qualcosa che vada oltre la semplice tolleranza delle differenze tutte. Ha imparato bene tutto questo, con sorprendente freschezza, evitando le insidie del troppo corretto, il festival di arti cinematografiche e performative Gender Bender, nato sedici anni fa dalle brillanti intuizioni di derivazione europea, e poi internazionale tout court, del curatore Daniele Del Pozzo, formatosi a quella palestra di operatori culturali che fu il mitico centro sociale Link di via Fioravanti. Dalla irriverenza di quel percorso formativo unita alla irriverenza del Cassero LGBTQI, che si è posto subito come naturale interlocutore e produttore del festival, è scaturita una rassegna che parla molti idiomi, che sfida e attraversa, ripensandoli, i codici linguistici e comunicativi delle pratiche artistiche più varie e che mette in relazione pubblici molto eterogenei.

Possiamo riferirci, in questo senso, alla bellissima docufiction The last Goldfish, di produzione australiana, una pellicola molto personale e corale al tempo stesso che a mio avviso dovrebbe essere proiettata nelle scuole di quasi ogni ordine e grado, date le molteplici valenze pedagogiche che esprime. Anzitutto è parso a chi scrive uno straordinario veicolo di emozioni e sensibilità, un modo assolutamente avulso da ogni retorica di parlare di famiglia, razza, politica e soprattutto olocausto e diaspora. Un’operazione di narrazione storica eclettica, assai apprezzabile in un’epoca in cui siamo traslati dalla riproducibilità tecnica dell’opera d’arte alla fabbricazione compulsiva di molte versioni taroccate dei fatti.

Ma il film è molto altro ancora: una dimostrazione dei mille convincenti perché contenuti nello slogan femminista,” il privato è politico” e anche una esemplificazione della politica in grado di plasmare in maniera tragica e imprevedibile il nostro privato, come accade a tutta la genealogia dell’autrice io-narrante, cresciuta del tutto inconsapevole del sangue ebraico che scorre nelle sue vene e delle conseguenze che ha avuto, direttamente e non, nella sua esistenza e in quella di tanti altri più o meno vicini a lei.

O ancora è anche una resa plastica, potremmo dire, della nostra inconsistenza biografica quando non siamo in grado di riferirci alle nostre radici identitarie e non riusciamo a reclamare una nostra appartenenza alla Storia, semplicemente perché non le conosciamo e una disamina della globalità del mondo forse sempiterna, di certo antica, quando si tratta di perseguitati, rifugiati, esiliati, migranti. Il lungo e tuttavia avvincente documentario è anche un saggio molto ben concepito negli incastri, sulle forme della diversità, come solo la vita e nessun altro sceneggiatore di grido saprebbero fare. Dunque, differenze di genere e generazione, invecchiamento, precarietà, declino, malattia mentale, barriere linguistiche e burocratiche, convinzioni politiche diverse, tutto è compresente nella saga appassionante dei “pesciolini d’oro”, cosi vicina al cuore di ogni spettatore malgrado gli aspetti rocamboleschi.

Ma il messaggio profondo del film è anche un altro: forse singolarmente presi non possiamo modificare il corso degli eventi storici e neppure possiamo scegliere del tutto le nostre appartenenze, ma certamente essere consapevoli possiamo e, a dispetto del dolore e della fatica che affronteremo, possiamo scegliere di diventare narratori della nostra storia: sarà il nostro modo di ribellarci all’ingiustizia, di fare i conti con noi stessi, perdonare e riconciliare, senza dimenticare o fare sconti. Senza buonismo, insomma, senza tuttavia pensare di non essere coinvolti, senza riprodurre meccanismi di sopraffazione e rimozione, ma diventando testimoni e ambasciatori di pace.

Il film così si connota anche come atto d’amore per il mistero e la funzione civile della ricerca storica, come forse nessun saggio metodologico dei più eruditi avrebbe saputo esprimere, mettendo in risalto gli aspetti di detection, suspence, ossessione e possessione che pure ne fanno parte.

La volontà di sapere, anima Su Goldfish attivista per i diritti civili, documentarista ed esponente della cultura queer, inserita felicemente in una sua famiglia alternativa e comunitaria e la costringe a una estenuante ricerca a ritroso di una identità familiare occultata e segnata da lutti, paure, frustrazioni, senso di perdita, che infine è la tragica storia del nostro occidente.

Su Goldfish e noi con lei, attraversiamo tutti i continenti e buona parte del secolo scorso per ritrovarci infine nella civile e feroce Europa a posare le cosiddette pietre d’inciampo, a memoria e memento delle famiglie ebraiche smembrate e annientate dalla furia nazifascista in un abbraccio contemporaneo con chi oggi vive mutatis mutandis gli stessi orrori di deportazione e abita i luoghi che furono della famiglia biologica Goldfish, ridando vita e forma a ciò che altrimenti sarebbe solo memoria luttuosa e senza riparazione possibile.

Il cerchio si chiude come una sorta di viaggio dantesco di consapevolezza: siamo tutti ora anche in sala un pochino più consapevoli di essere frutto di molte storie stratificate Sono questi i piccoli miracoli di un festival molto resiliente perché schierato nettamente dalla parte giusta, quella di chi vuole capire, scegliere, accogliere tutti i microcosmi che siamo, anche e soprattutto quando difformi dalle narrazioni dominanti. In fondo è da qui che si comincia a combattere fascismo e razzismo. E a cosa servono i festival se non a farci scoprire microcosmi ancora sconosciuti e opere interessanti da riproporre ? Dunque ci auguriamo un semplice arrivederci alle molte storie nella storia Goldfish e magari, chissà, una presenza a Bologna per la sua tenace autrice.

di Silvia Napoli

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