Cultura

Letizia Gelli Mazzucato e l’architettura della memoria

By 3 Aprile 2019 No Comments

Il monumento di Sabbiuno, sulle prime colline di Bologna, è stato definito dal grande storico e critico dell’architettura Bruno Zevi «il più convincente e significativo tra le centinaia di memoriali ai caduti della lotta partigiana europea» (L’Espresso del 5 agosto 1973). La sua ideatrice, Letizia Gelli Mazzucato, tra i protagonisti dell’architettura della seconda metà del ‘900, venuta a mancare il 4 febbraio scorso a 81 anni, andava giustamente orgogliosa di un così autorevole consenso, anche perché  la sua realizzazione era stata una sfida non da poco. Si trattava di creare un luogo in cui «il maggior numero di persone possibili» potesse ritrovare «la memoria delle cose, le radici», ricordava Letizia Gelli in un video girato recentemente proprio a Sabbiuno, che ci rimanda l’immagine della donna che è sempre stata e come la ricorda chi l’ha conosciuta: dolce ma ferma e determinata, stimolante ma anche esigente. «Non vogliamo creare radici fittizie, non vogliamo dimenticare o esagerare, solo fissare le cose che sono successe, né più né meno».

Le “cose che sono successe”, in breve, sono queste:  i massicci rastrellamenti effettuati all’indomani della battaglia di Porta Lame avevano portato alla cattura di un gran numero di ricercati, che vennero inizialmente rinchiusi nel carcere di San Giovanni in Monte. Il sovraffollamento del carcere e la necessità di disfarsi di elementi considerati pericolosi impose una nuova strategia: non più grosse stragi, come quella di Marzabotto, che aveva riempito il mondo d’orrore, ma Nacht und Nebel, notte e nebbia: i prigionieri dovevano sparire senza che nessuno sapesse più niente di loro, e il calanco, che avrebbe divorato e nascosto quei corpi per sempre, era il luogo ideale. Perciò in due riprese, il 14 e il 23 dicembre ‘44, i prigionieri, circa un centinaio, furono portati a Sabbiuno, fatti pernottare nella casa colonica, condotti al mattino sul ciglio del calanco e fucilati.

«Come rappresentare una tragedia così grande?», ricordava Letizia Gelli durante le celebrazioni del settantesimo anniversario, il 14 dicembre 2014. La sfida era creare un «messaggio forte ma non retorico né ambiguo: decidemmo di sottolineare i luoghi e i fatti. I luoghi erano già così belli e così tragici che bastava sottolinearli».

Ed ecco, sempre attraverso le sue parole, come ha saputo tradurre queste considerazioni in un monumento apparentemente semplice eppure suggestivo ed emozionante come pochi: «Grosse pietre segnano il percorso dalla stalla in cui c’erano i prigionieri, fino al punto in cui venivano fucilati e  arrivano fino al muro che sostiene i mitra. Ogni nome è inciso su una pietra. Una croce giù in valle segna il punto in cui, alla primavera successiva, al disgelo, comparvero i resti. Un filo spinato rosso, una specie di cavallo di frisia, è il segno del sangue, dei corpi che vanno giù».

Dopo quest’opera, e grazie al successo che riscosse, vennero il monumento alle 128 donne morte per la libertà, a Villa Spada (1975), e il museo di Ustica, costruito intorno ai resti del DC9 precipitato nel 1980 (2007), che si aggiungono ai molti edifici civili progettati nel corso di cinquant’anni insieme al gruppo “Città Nuova”, di cui faceva parte anche il marito Gian Paolo Mazzucato, e che continueranno nel tempo a testimoniare la forza, la bellezza e il coraggio del suo pensiero.

di Donata Pracchi

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