Cultura

Mast, o dell’estetica ambientale

By 5 Giugno 2019 No Comments

Mast, o dell’estetica ambientale

Ci vorrebbe parecchio tempo, unitamente a capacità di analisi sopraffina, per fare un discorso sensato e complessivo sulla struttura Mast di via Speranza, che si pone da qualche anno come luogo imprescindibile della vita sociale dei bolognesi, così come avviene in qualche modo per un altro spazio di difficile definizione e mission cugina, quale è l’Opificio Golinelli, sito nella stessa operosa area manifatturiera e artigiana della prima periferia bolognese.  Ambedue si pongono come esperienze esemplari di quale valenza culturale oltreché etica possa conquistarsi la responsabilità sociale d’impresa, generalmente rara sotto i cieli italici, invece presente in relativa abbondanza nelle pianure nostrane: l’opificio, accentuando una vocazione didattica, il Mast, optando per una sorta di pedagogia e marketing sociale in senso ampio.

Ad elencare le funzioni del Mast, infatti, si esaurirebbe lo spazio dell’articolo, così come ad elencare le benemerenze della sua patronessa, Isabella Seragnoli, principale azionista di Coesia Group, uno dei fiori all’occhiello dell’industria bolognese nel mondo. Coniugando filantropia, understatement, curiosità, costante ricerca  sul benessere e soprattutto su tutte quelle forme di linguaggio, specialmente visivo, che possano ridefinire un immaginario collettivo sul bistrattato tema del Lavoro, si può dire che la Seragnoli sia riuscita nel difficile intento di piegare un luogo, una costruzione iper e polifunzionale di impatto vagamente costruttivista e assoggettante,   mitigandolo con tocchi di grazia e alleggerimento zen, in una sorta di wonderland dove il pensiero dominante produttivo smette i panni minacciosi e unicisti, per dispiegare vocazioni alla sinergia, persino all’armonia con le Arti e le Scienze, rapporto in verità spesso scabroso: il fine ultimo teoretico appare quello di scrivere un pezzetto di storia sociale ed estetica del passaggio dalla Tecnica alla Tecnologia, nuova frontiera delle magnifiche sorti progressive. In questo cenacolo allargato che diventa il Mast nei suoi ambìti eventi pubblici,  di caratura internazionale e varia natura, culminanti nella celebrata biennale di fotografia dedicata al mondo dell’industria e del lavoro in generale, che cadrà proprio quest’autunno, viene ricreata una sorta di Accademia arcadica, non certo pastorale o idillica e certamente assai democratica, in cui non vengono eluse criticità e aporie del mondo globalizzato: anzi, talvolta esse vengono esposte sia tra le immagini delle migliori esibizioni fotografiche che nelle rassegne filmiche in tutta la loro crudezza. Ma qui l’approccio assertivo e il culto della bellezza la fanno da padroni: in qualche modo l’idea è che accogliendo i migliori, una aristocrazia  di artisti e pensatori, di innovatori nei loro campi, si possa marcare una differenza profonda col mainstream corrente comunicativo e politico, fatto di chiacchiere, haters, vittimismi e recriminazioni incrociate. Se si aggiunge che l’accessibilità è quasi una precondizione e dunque al Mast tutto è fruibile e consultabile for free e non si è afflitti dalla proliferazione di donazioni up to you o da merchandising invasivi, si ha un impatto immediato di coerenza e rigore. Alcune delle eccellenze sopracitate sono personalità ricorrenti, amici, per cosi dire, di vecchia data della Fondazione Mast. Piu di recente il Mast ha anche intensificato le collaborazioni e un certo dialogare continuativo con le istituzioni culturali locali che maggiormente sono parse essere sulla stessa lunghezza d’onda: alcuni dipartimenti universitari e la Cineteca del comune di Bologna per primi,  ma anche i ragazzi di Home movies, stante la loro evidente vocazione alla rappresentazione del mutamento; ma soprattutto l’Arena del Sole, improntata dalla Direzione Longhi ad una inclusività, una attenzione al Mondo con le sue contraddizioni, una voglia di riflettere sul senso del recente passato, uno spirito paneuropeo, che certo Seragnoli e il suo staff apprezzano. Appare evidente che “non buttare via il bambino con l’acqua sporca”, se era ai tempi una frase “protorivoluzionaria”, oggi è il credo operativo del Mast: perciò bando alle nostalgie e al conservatorismo, attenzione puntata con ragionevole programmatico ottimismo verso quei processi presenti che odorano già di futuro, ma piedi ben piantati nel grande alveo dell’Umanesimo.

Evitato il rischio della sindrome da torre d’avorio, bisogna dire che ciò che rende il Mast un posto in qualche modo peculiare e in certo senso riposante, è, oltre al comfort controllato, quasi deresponsabilizzante, che lo contraddistingue, e alla cura estetica  meticolosa e sobria , più che minimal (ragione per cui nonostante la bellezza e l’eleganza delle addette si è certi di non trovarsi in qualche posto suppostamente arty e modaiolo), l’allure internazionale di tutti i progetti.

Questi specialismi internazionali semplificati per un ascolto e un’accoglienza di livello, ma non di nicchia, che richiedono al pubblico una certa applicazione,  sia nel porre le domande nel question time finale, che nell’eventuale maneggiar di cuffie per la traduzione simultanea, fanno sì che le questioni siano effettivamente poste e sciorinate  in una forma più neutrale possibile ed anche che si dribblino quelle polemichette inevitabili qualora i relatori fossero sempre e comunque nostrani e i soliti noti. Questo ragionamento vale per molti dei curatori che ruotano intorno al progetto Mast e che  fanno parte del mondo cosmopolita dei nomadi del Sapere e del Bello, categorie che in qualche modo sono concepite come una carta di intenti o una dichiarazione di Diritti imprescindibili.

Qui dunque si creano grandi mostre, oppure  se ne importano in maniera tempestiva ed esclusiva, ben consci di come sia necessario stare sul pezzo per assolvere una funzione di pedagogia allargata distante dai codici linguistici televisivi. Questo è il caso di Anthropocene, ufficialmente una mostra  di grandissimo impatto e, come vedremo, fascinazione dell’orrido, intorno alla quale è stato costruito un concept  progettuale vero e proprio con diversificate iniziative collaterali, che ha già suscitato l’interesse di parecchi insegnanti e ha sviluppato una sinergia con il festival Human Rights Nights. Questo festival, dedicato alla documentaristica inedita sui diritti civili declinati in diverse accezioni, ha sempre avuto una sede naturale nelle sale del Lumiere e vede moltiplicate stavolta le locations, con tre giorni di sontuosa apertura proprio qui, nell’auditorium dell’albero Maestro di Arte, Scienza e Tecnologia, come reciterebbe l’acronimo, dal momento che la fondazione entra anche come cofinanziatrce dell’iniziativa.

Anthropocene è una sorta di format multidisciplinare e multimediale, già insignito di vari riconoscimenti nonostante sia lavoro molto recente, concepito dagli sforzi intellettuali artistici e produttivi di tre figure di grande spicco della scena visuale canadese e internazionale quali Edward Burtynsky e la coppia di sodali nella vita e nel lavoro Jennifer Baichwal e Nicholas De Pencier. Tra foto, film, esperimenti di realtà aumentata, essi sposano la teorizzazione formulata da autorevoli geologi, archeologi , geografi e storici dell’ambiente, secondo la quale  saremmo entrati in nuova era, denominata appunto Anthropocene, contraddistinta dalla marcata e primaria influenza dell’uomo sull’ambiente in generale e anche sull’habitat di molteplici specie viventi, con conseguenze ancora tutte da valutare, quando non decisamente catastrofiche, come per esempio potrebbe essere la dibattuta questione del climate change che sta mobilitando i giovani di tutto il mondo.

Nelle immagini del film in replica durante la settimana fino a settembre, scorrono una gran parte delle maxi foto in esposizione, catalogate secondo il tipo di negatività naturale e quindi di deformazione del disegno, dei colori, della consistenza e rilevanza dei paesaggi, una sorta di perverso morphing globale attuato da uno Stranamore o da un Joker in preda ad una qualche forma di ispirazione  perversa o, al contrario, apprendista stregone per la sua parte cialtrone, peccatore di hybris, come i classici dicevano di chi avesse l’ardire di elevarsi ad altezze improprie, novello Adamo cacciato da un Eden in cui non ha mai creduto, Ulisse punito per una sete di superamento della conoscenza che mette a repentaglio valori, cose e persone. Le immagini sono qualitativamente eccellenti e servono appunto a illustrare questo giardino delle delizie rovesciato, ove la fanno da padrone gli eccessi: di secchezza, di liquidità, o di creazione addirittura di categorie geochimiche nuove come i tecno fossili, che sarebbero appunto tutti quei sedimenti di scarto prodotti dall’ingegno e dalla produttività dell’uomo, irriducibili al momento per le più disparate ragioni, vuoi oggettive, vuoi di negligenza, alla eliminazione o riduzione a qualcos’altro. Palpabile è lo sgomento che si produce in sala, perché, in fondo, il quesito che ci viene posto in termini assoluti e che pervade già tante riflessioni senza voler andare troppo indietro nel tempo, ma quantomeno risalendo  dai gesuiti al post illuminismo e pensando a Leopardi così come a Marx, è se in fondo tutto questo potesse essere mai evitato e se l’uomo rientri a buon diritto fra gli elementi naturali, dunque non geneticamente privilegiato, ma elemento naturale egli stesso, potente detonatore di una inevitabile entropia finale. Siamo forse in preda a terribili forze oscure, intelligenze superiori, revenants scaraventati da un meteorite o che altro, a giudicare da rappresentazioni belle, calamitose, potenti come quelle cui assistiamo?

I due dibattiti previsti à côté, con l’esperta del trattamento delle temibili materie plastiche e con lo storico dell’ambiente, non mitigano il senso di smarrimento in quanto forse tutti noi, pur avendo in uggia, se non altro per ragioni estetiche o di invasività, tutti i polimeri del mondo, non possiamo fare a meno di pensare al problema altrettanto cogente del consumo di materie primarie quali acqua e legno, che oltretutto sono necessarie per la creazione di cellulosa, con relativi costi aggiuntivi. Insomma, questioni difficili da sciogliere con semplici dichiarazioni d’intenti o di buona volontà o financo con i comportamenti più virtuosi quandanche si diffondessero su larga scala.

I discussants stessi  sembrano nutrire, se non altro per l’urgenza quasi irreparabile che le questioni  hanno, scarsissima fiducia nella capacità dei governi mondiali di trovare efficaci accordi largamente condivisi e prontamente messi in pratica per arginare le spinte al moltiplicarsi esponenziale dei danni ambientali, ridurre i consumi di co2 e invertire la tendenza autodistruttiva e dissipativa in atto.

Conseguentemente non vengono formulate analisi propriamente politiche di sistema né ci si riferisce ai movimenti di vario genere e di diversa concentrazione di radicalità o intensità delle pratiche di provocazione o sabotaggio o di alterità alle forme economiche imperanti, che un po’ ovunque nel mondo si vanno  diffondendo a macchia d’olio, con qualche evidente pigrizia italica.

In buona sostanza par di capire che, essendo in ballo anche faccende demografiche complesse, questioni di sviluppo e sottosviluppo, non ci si attenti a cercare uno sviluppo altro, forse un qualcosa che non dovrebbe neppure chiamarsi così, ipoteticamente proponibile in blocco a tutti e ovunque, ma ci si rifugi nella creatività e plasmabilità delle nuove tecnologie, che sapranno trasformare, riciclare,  governare, in altri termini ricostruire, ciò che si viene perdendo, guastando, alterando inesorabilmente.

Un esempio ci viene fornito poi dal film in rassegna per Human Rights, centrato sulle traversie dell’ormai ex Presidente della sperduta isola di Kiribati , nell’Oceano Pacifico,  minacciata molto concretamente dalla sommersione, cui viene proposto anche un futuribile progetto nipponico di nuova Atlantide. Una sorta di cura omeopatica, in cui l’acqua fa danno e nell’acqua sta la soluzione.

Dalla Scienza, per derivazione tecnica, per interesse o costituzione, ci sono arrivate scoperte, potenziali soluzioni ad altrettanti problemi, poi storicamente superati  o rivelatisi addirittura controproducenti: da queste stesse capacità e da questi saperi, la cui evoluzione sono appunto stupefacenti nuove forme di intelligenza e nuovi modus operandi decisamente più asettici, potrebbero arrivare impensati reset globali, a patto di divenire consapevoli della posta in gioco, guardare lontano, più in là di un sondaggio d’opinione o di una tornata elettorale, e pensare anche alle povere, in tutti i sensi, generazioni prossime. Stupisce forse un poco che non si accenni ad un paio di questioni interessanti che ruotano intorno al discorso, quale quelle dei finanziamenti e degli investimenti, chi li ha fatti in passato, rispetto al nostro sviluppo industriale e alla ricerca degli antidoti, chi finanzia ora queste nuove frontiere di realizzazione e razionalizzazione, chi preferibilmente dovrebbe farlo, progetti artistici e documentari compresi: apposite commissioni in capo agli stati, multinazionali stesse, entità militari, come spesso è accaduto anche nel recente passato? Non vengono forse mai rammentate abbastanza le numerose guerre dichiarate e implicite, con tanto di sfide nucleari sottomarine, i cui effetti sono ancora tutti da verificare, né si discute mai troppo approfonditamente del modo in cui ci approvvigioniamo di energia, e le centrali nucleari non vengono ormai più citate come fonte di criticità, stante il non rientrare nei parametri estrattivi  o di “materia plastica”. In ogni caso, l’apparato teorico e iconografico del Progetto Anthropocene non lascia indifferenti e ci pone grandi responsabilità. A me, forse da inguaribile romantica, risuonano in testa le più recenti considerazioni del columnist ambientalista George Monbiot del Guardian sull’incompatibilità strutturale del Capitalismo con la difesa dell’ambiente e, ormai, del genere umano. Qui dovrebbe poi seguire un ulteriore dibattito per definire se il Capitalismo, in quanto forma dominante delle Economie, sia più che mai in sella, oppure si stia trascinando in una perenne crisi non già ciclica, ma di sistema, verso una sorta di cannibalizzazione di se stesso, oppure se sia già finito, di fatto, o, infine, se, piegando di nuovo a sé tutte le possibili conoscenze, saprà rinascere come la Fenice dalle sue ceneri.

Seragnoli ha ben compreso le sue responsabilità di imprenditrice, peraltro, non solo nel senso evidente di restituire e far circolare tanto nella comunità,  ponendosi come instancabile mecenate , lavoratrice e filantropa, ma andando ben oltre la logica del biglietto da visita o del fiore all’occhiello, perché evidentemente un po’ di questi interrogativi sono anche i suoi.

 

Di Silvia Napoli

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