di Mauro Maggiorani
Ho conosciuto qualche settimana fa il professor Gian Luigi Agnoli, figlio dell’ingegner Mario Agnoli, l’ultimo podestà di Bologna (sedette a Palazzo d’Accursio dal settembre 1943 sino al 20 aprile 1945). Mi ha chiesto lui di vederci. Gian Luigi ha voluto consegnare all’ANPI, mio tramite, un’antologia in più volumi, da lui curata, dedicata alla lotta di liberazione dal titolo La Resistenza nell’arte (1935-1945). Un gesto teso a sottolineare il riconoscimento nei confronti di tutti coloro che misero a repentaglio la propria vita per la libertà; un gesto sincero, non retorico su cui dobbiamo porre la nostra attenzione.
Chi vive a Bologna dovrebbe conoscere Mario Agnoli. Purtroppo non sempre è così; e allora è bene partire da un episodio: è il 21 aprile del 1945, di prima mattina, e l’ingegner Agnoli si reca in municipio per “consegnare” la città al nuovo sindaco Giuseppe Dozza. L’incontro avviene in un clima sereno; tanto che al termine il CLN gli comunica che se ne può tornare a casa, senza che alcun provvedimento venga adottato a suo carico. Un tributo, non certo scontato vista la situazione, a chi aveva guidato Bologna con responsabilità nei lunghi mesi dell’occupazione.
Luciano Bergonzini, per richiamare uno dei più importanti storici della Resistenza bolognese, ha scritto che Agnoli «seppe mantenere una posizione di relativa indipendenza, dedicando la sua attenzione prevalentemente ai problemi della vita dell’aggregato comunale e della funzionalità amministrativa e curando in particolare i problemi dell’assistenza, dei rifornimenti annonari, dell’organizzazione dei servizi e degli istituti della vita civile. Si adoperò anche, intervenendo direttamente presso Kesselring, perché Bologna fosse dichiarata “città aperta” e ottenne il 18 luglio 1944 dal feldmaresciallo alcune concessioni (parziale sgombero di reparti di truppa e di uffici militari, deviazione del movimento delle colonne dal centro della città) […] Poi i tedeschi predisposero la “Sperrzone”, recintando la città, con opere in muratura, “cavalli di Frisia” e reticolati, sulla linea delle vecchie mura, isolando così il centro storico dalla periferia». (Bologna 1943-1945, Clueb, 1980). Per questo suo atteggiamento Agnoli, sino alla morte (avvenuta nel 1983), poté continuare a occuparsi di edilizia privata e pubblica a Bologna , ricoprendo incarichi importanti come quello di presidente dell’Accademia di Belle Arti e dell’Ordine degli ingegneri.
Gian Luigi vorrei cominciare la nostra conversazione da una domanda che è, per così dire, obbligata: perché ha deciso di raccogliere questi materiali dedicati alla Resistenza e donarli all’ANPI di Bologna?
Mio padre è stato, sin da giovane, attratto dagli ideali di libertà, di uguaglianza, di giustizia sociale. Col tempo poi, frequentando la figura di padre Acerbi e sulla base degli insegnamenti che avevo ricevuto, ho maturato l’idea di raccogliere un album fotografico che raccontasse, dal Nord Italia sino al Sud, le figure dei partigiani, con particolare riguardo all’impegno di pittori, artisti che hanno dedicato le loro opere alla Resistenza. Sono volumi fotografici, che non hanno la pretesa di svolgere una riflessione critica e interpretativa; è un documentario fotografico delle persone che si sacrificarono per la libertà dell’Italia. Questo è lo spirito con cui ho cercato di raccogliere, negli anni, questi materiali.
Vorrei tornare su suo padre: nonostante l’opera per risparmiare Bologna dai bombardamenti e la sua adesione ai principi democratici e libertari è rimasto all’interno della Repubblica Sociale sino all’ultimo. Come possiamo giustificare questa scelta?
Mio padre da giovane si era iscritto al Partito socialista italiano poi, quando all’orizzonte comparve la figura di Benito Mussolini, come tanti ne rimase affascinato. E aderì al suo movimento avendo però sempre a mente questo radicamento nel socialismo. Con il trascorrere degli anni, il fascismo assunse forme dittatoriali che mio padre non poteva accettare e ne prese le distanze. Va anche detto che quando fu eletto podestà non aveva mai ricoperto incarichi politici. E, come sappiamo, si adoperò moltissimo per la protezione della città e la protezione della popolazione. Si mise anche in contatto con il comando partigiano prendendo accordi per la salvaguardia dei più importanti servizi cittadini (acquedotto, gas, luce) e per il pacifico trapasso dei poteri in città.
A questo proposito, c’è una lapide collocata nel 2014 all’ingresso del convento adiacente la basilica di San Domenico in cui si ricordano tre uomini che si prodigarono per fare di Bologna una “città aperta”: Mario Agnoli, il cardinale Giovanni Battista Nasalli Rocca e padre Domenico Acerbi, che citava poco fa. Padre Acerbi (1900-1984) ha una storia molto singolare: fu pilota durante la Grande Guerra, poi volontario a Fiume e, dal 1926, frate domenicano e missionario; so che gli ha dedicato un libro “Padre Domenico Acerbi: missionario domenicano dalla mano di Dio”.
Va detto che in quei mesi a Bologna vivevano circa 600 mila persone rifugiatesi con masserizie e animali (si parla di oltre seimila mucche, che davano il latte a tutti gli abitanti). Questi tre uomini, per salvare la città, misero insieme il loro ingegno e la loro determinazione dando vita a una lunga trattativa per fare di Bologna, già allora grande polo ospedaliero e scrigno di tesori d’arte e scienza, una città aperta. Purtroppo, come sappiamo, tale riconoscimento non venne mai. Ma se non venne ufficialmente ci fu nei fatti; per affermare questo nel 2007 ho scritto Bologna e i suoi ospedali negli anni della guerra. Il libro nasce dalla constatazione che, a quei tempi, oltre agli ospedali, anche le scuole, i conventi e molti altri luoghi vennero adibiti a ospedali, per cui in realtà Bologna può essere definita una città ospedaliera, tant’è che era meta di persone ferite e malate provenienti dall’intera provincia e dalla regione.
Che ricordi ha della guerra? Lei era un bambino a quel tempo.
In quegli anni abitavamo in via Saragozza, poco prima di via Casaglia. Non ho ricordi particolari; diciamo che mi limitavo a seguire i miei genitori. Abbiamo subito diversi sfollamenti, siamo stati anche a San Luca e il caso volle che venimmo via da quella casa solo un’ora prima che fosse bombardata.
E di Bologna “città aperta” ne sentiva parlare in casa?
Posso dire questo: che mio padre, insieme a padre Acerbi e al cardinale Nasalli Rocca, si impegnò moltissimo perché la città aperta potesse realizzarsi. Si badi però che Mussolini non era veramente dell’idea, la considerava una manifestazione quasi di resa, di debolezza. Mentre invece loro la vedevano come un modo per salvaguardare la città da bombardamenti che erano veramente pesanti.
Cosa ha voluto dire, nel dopoguerra, portare a Bologna un cognome così impegnativo?
È stato un cognome molto impegnativo, ha ragione. Anche perché ti faceva pensare di comportarti sempre in un certo modo e non sempre ti sentivi all’altezza di farlo; per cui potevano nascere momenti di sconforto, ma questo cognome mi ha anche spinto a tenere sempre un comportamento molto chiaro, trasparente, lontano dalla politica e rispettoso nei confronti di tutte le persone.
Come possiamo chiudere questa nostra conversazione?
Ci tengo a ricordare un fatto storico. Il 21 marzo 1946, a guerra finita, mio padre fu chiamato in giudizio dalla Commissione provinciale per l’applicazione di sanzioni a carico dei fascisti politicamente pericolosi. Ne facevano parte Vittorino Grassi (presidente), Ubaldo Lopes Pegna e Gaetano Mengoli (giudici). La relazione finale si conclude così: «L’ing. Agnoli non doveva, per quanto sopra, essere segnalato a questa Commissione per la sospensione dei diritti elettorali; la stessa segnalazione si risolva in una manifesta offesa alla giustizia, offesa che va riparata riconoscendo all’ing. Agnoli la figura del cittadino onesto, del patriota, fervente artefice della salvezza della sua città in uno dei più gravi momenti della storia».