Quando avranno inquinato l’ultimo fiume, abbattuto l’ultimo albero, preso l’ultimo bisonte, pescato l’ultimo pesce, solo allora si accorgeranno di non poter mangiare il denaro accumulato nelle loro banche.
(profezia Hopi, popolazione nativa del sud degli Stati Uniti)
Stiamo vivendo una crisi globale di dimensioni inedite che mette in discussione la nostra stessa esistenza come specie. Nonostante i ripetuti appelli della comunità scientifica e delle organizzazioni ecologiche e ambientali, osserviamo una pervicace e suicida sordità dei governi che potrebbero ancora fermare o rallentare questa corsa verso modificazioni climatiche disastrose per il nostro ecosistema. Le attuali classi dirigenti – tranne poche virtuose eccezioni – sembrano prede delle loro rapaci ambizioni politiche e attratte come falene dal falso mito della crescita infinita che sta devastando il pianeta e le sue risorse.
È possibile un capitalismo sostenibile? Esistono alternative a questo perverso modello di sviluppo? Sono convinto che le alternative ci sono e ci sono sempre state ma vengono sistematicamente eliminate con le buone o con le cattive. La lista di dirigenti politici e sindacali uccisi in tutto il mondo è infinita e così pure gli innumerevoli colpi di stato per bloccare qualsiasi tentativo di cambiamento. Con molta arroganza e cinismo la quasi totalità delle forze politiche ci vuole convincere che non esistono alternative al capitalismo, al massimo si può renderlo compassionevole e mitigare i suoi estremismi turbo e selvaggi, come vengono definiti. La stampa asservita dichiara senza pudore che dal tavolo dei ricchi qualche briciola cadrà per alleviare le sofferenze delle moltitudini sempre più povere del pianeta.
Secondo gli ultimi dati emersi durante il recente Forum economico mondiale di Davos, l’82% dell’incremento di ricchezza globale registrato l’anno scorso è finito nelle tasche dell’1% più ricco della popolazione: otto super miliardari detengono da soli la stessa ricchezza netta (426 miliardi di dollari) di metà della popolazione più povera del mondo, vale a dire 3,6 miliardi di persone. Lo scorso anno questi super ricchi con metà del patrimonio mondiale erano 62. In Italia a metà 2017, il 20% più ricco degli italiani deteneva oltre il 66% della ricchezza nazionale netta. Nel periodo 2006-2016, il reddito nazionale disponibile lordo del 10% più povero degli italiani è diminuito del 23%. Di fronte a questi dati, che dovrebbero scatenare mobilitazioni e proteste, cosa meglio di un’emergenza migrazione gonfiata ad arte per trovare un comodo debole nemico su cui concentrare la rabbia? Nel 2017, si legge in un rapporto di Oxfam International, ben 15 milioni di persone hanno dovuto abbandonare il proprio paese per fuggire un evento meteo estremo. Ancora più drammatica – un miliardo di rifugiati climatici entro il 2050 – è la previsione pubblicata su diverse autorevoli riviste scientifiche. La crisi ambientale ci dimostra ogni giorno di più che questo sistema è criminale e distruttivo e ci chiama a un rinnovamento politico e culturale di dimensioni storiche.
Occorre una riconversione ecologica della società per fermare la distruzione della natura e ridare fiducia alle nuove generazioni. La grandezza della crisi è purtroppo affrontata dalla più mediocre classe dirigente che la storia ricordi. Pochissimi i politici che hanno a cuore questo tema. Ci sono invece molti intellettuali e artisti che cercano di sensibilizzarci attraverso le loro opere: Amitav Ghosh, il grande scrittore e antropologo indiano è uno di questi: nel suo recente libro La grande cecità dichiara che i cambiamenti climatici non sono solo un problema economico o tecnologico, ma anche culturale.
I cambiamenti climatici non si manifestano soltanto con i fenomeni eccezionali come quelli ai quali abbiamo assistito negli ultimi decenni: alluvioni, tempeste, uragani, siccità. L’Italia è al settimo posto al mondo per danni da catastrofi ambientali. Sfiora la drammatica cifra di 24 mila morti, secondo le stime di Legambiente, il numero di vittime delle ondate di calore che hanno colpito l’Italia nel decennio che va dal 2005 al 2016. Al fattore climatico si aggiunge anche l’incuria del territorio, causa principale del dissesto idrogeologico. La recente esondazione del Reno a Castel Maggiore ne è una drammatica conferma. Forse le uniche novità nel panorama mondiale in grado di offrire proposte e soluzioni innovative sui grandi temi che abbiamo di fronte -diseguaglianze crescenti e crisi ambientale – sono le popolazioni native dei vari continenti che ci hanno da sempre avvertito sui pericoli dello sfruttamento incondizionato della natura e, in un recente incontro in Amazzonia, hanno proposto la creazione della più grande area protetta del mondo che si estenderebbe dalle Ande all’Atlantico; le organizzazioni femministe come Ni una menos che dall’Argentina si sono diffuse in tutto il mondo e stanno elaborando un pensiero antipatriarcale e anticapitalista e infine le variegate forze politiche antagoniste che stanno costruendo teorie e pratiche virtuose in diversi ambiti locali: agricoltura, alimentazione, edilizia, trasporto, energie rinnovabili. Le conseguenze degli stravolgimenti imposti al clima dalle attività umane (antropocene) sono sotto gli occhi di tutti tranne in quelli dei politici che ci governano, legati mani e piedi alle decisioni dei poteri finanziari transnazionali.
di Roberto Pasquali