Da oltre dieci anni il nostro Paese è alle prese con una crisi la cui soluzione sembra ancora molto lontana. I vari tentativi per uscirne non hanno prodotto alcun risultato apprezzabile. Anche il recente governo pentaleghista non sembra avere contezza di ciò che occorre fare e naviga senza bussola in mare aperto. Altri paesi non stanno molto meglio. Le cause della difficoltà per trovare una soluzione sono diverse. Certamente alcune, fra le maggiori, risiedono nella situazione determinata dalla globalizzazione; altre vanno attribuite alla finanza senza regole, altre ancora alla confusione prodotta dalle scelte di governanti senza arte né parte in Italia e in molti altri lidi non esclusi gli Usa e la UE.
Eppure, senza andare troppo indietro nel passato, una esperienza di politica economica e sociale di ben altro risultato e spessore è rintracciabile. Parlo della nostra provincia nei trent’anni circa del dopoguerra. Provo a descrivere il quadro di allora per i vari settori dell’economia e della società bolognese e gli avvenimenti più importanti.
Cominciando dall’agricoltura la cui importanza era ancora, negli anni ‘50-’60, molto alta.
. Lo sviluppo dell’associazionismo fra i contadini (fittavoli e mezzadri in particolare) per introdurre la tecnologia nelle aziende agricole. I suoi effetti economici e sociali furono notevoli in termini di produttività, di riconversione dell’assetto agrario in quanto si sostituiva l’energia animale con quella meccanica e si riconvertiva la funzione del patrimonio zootecnico: più latte e carne; oppure maggiori produzioni da reddito invece delle foraggere; avendo diminuito il patrimonio di animali da lavoro. Maggiori redditi e più offerta di prodotti per il settore alimentare. Ma anche nuovi rapporti all’interno delle stesse famiglie con processi di specializzazione per le varie funzioni compreso un grandissimo passo avanti del ruolo delle donne.
. Solidarietà fra le imprese agricole in quanto l’associazionismo per la meccanizzazione consentiva l’uso della più moderna tecnologia per i grandi e medi lavori anche alle aziende più piccole.
. Lo sviluppo delle cooperative di servizio all’agricoltura: per gli acquisti collettivi dei mezzi tecnici, per l’assistenza tecnica, per la presenza sul mercato diretta o mediata, ma con capacità contrattuale ben più efficace rispetto i tempi precedenti.
. L’effetto dell’imponibile di mano d’opera con lo sviluppo di produzioni pregiate grazie ad una agricoltura intensiva basata su produzioni di pregio in cui eccellevano le zone di collina e alta collina che diversamente dal passato garantivano importanti redditi.
. L’azione per dare la terra degli enti pubblici ai contadini. I Pii Istituti Educativi e la Amministrazione provinciale; circa 1500 ettari attraverso il meccanismo della Cassa per la piccola proprietà contadina.
. La creazione del Consorzio produttori latte (Granarolo); un esempio di industria dei produttori e di innovazione di processo (il tetra pack) e di prodotto; oltre che di difesa del reddito degli allevatori.
. L’applicazione del nuovo contratto di affitto prodotto dal superamento della mezzadria; attuato con un confronto con la proprietà fondiaria, non privo di una forte dialettica, ma senza determinare un clima di scontro frontale con i proprietari e con ottimi risultati.
. Le cooperative di braccianti per l’acquisto o l’affitto delle attrezzature per i cantieri dei grandi lavori agricoli. Con l’autogestione della mensa per le molte decine di addetti a questi cantieri come garanzia di qualità di alimentazione e risparmio nei costi. L’acquisto e l’affitto di vaste estensioni di terreno agricolo per dare vita alle cooperative bracciantili di conduzione delle terre. Non si aspettava una eventuale rivoluzione tipo 1917 per avere la terra.
. Infine, ma non ultimo, il grande mercato ortofrutticolo all’ingrosso. Questa struttura commerciale, con la presenza diretta di 450 produttori (importante esempio di programmazione produttiva specie attraverso le 7 cooperative di soci provenienti anche da altre aree della regione) e meno di un centinaio di grossisti, ha prodotto l’unificazione commerciale del paese per questo settore, determinando un mercato nazionale prima inesistente per il settore stesso. Infatti a fronte della provenienza dei prodotti da 15 regioni, la destinazione era verso 77 province grazie alla funzione di riorganizzazione della gamma e redistributiva; funzione senza esempi in altre nazioni europee e americane. Al mercato di Bologna si deve anche la creazione della borsa della patata; primo e insuperato esempio di innovazione di sistema, di processo e di prodotto.
L’industria.
Il fatto originario è il fenomeno dei licenziamenti politici. Oltre 4000 persone cacciate dalle fabbriche per rappresaglia politica. Questa è una delle origini di tanta parte della piccola e media industria e dell’artigianato vanto della nostra provincia (e regione).
Questa particolare forma di imprenditoria ha, fra l’altro, saputo fare tesoro degli effetti indotti dall’imponibile di mano d’opera inventando una meccanizzazione particolarmente vocata alla lavorazione dei prodotti ortofrutticoli e agricoli in generale; dando vita ad una tecnologia agro industriale che è stata apprezzata e copiata in tanti altri paesi. Lo sviluppo logico di questa esperienza è stata la tecnologia del packaging in generale e dei distretti industriali in seguito.
Un contributo decisivo allo sviluppo della PMI e dell’artigianato lo ha garantito la politica degli insediamenti attuata attraverso la generalizzazione dei Piani Regolatori prima nei comuni dell’interland di Bologna (anni ‘60); in seguito in tutti i comuni della provincia.
Un aspetto di grande interesse e significato è dato dal fenomeno di travaso di forza lavoro dal settore agricolo all’industria e all’edilizia in una prima fase, e in seguito alle varie forme del commercio e dei servizi. Questo fenomeno di travaso è avvenuto senza che si siano creati effetti negativi sia per quanto riguarda le necessità di forza lavoro nell’agricoltura (grazie allo sviluppo della tecnologia); ma anche senza determinare una offerta superiore alla domanda di forza lavoro negli altri settori, evitando così effetti sul potere contrattuale dei lavoratori e dei loro sindacati.
Il commercio
Dal 1946 comincia la costituzione delle cooperative di consumo comunali. Sono un fattore di calmiere rispetto la politica commerciale speculativa di taluni esercenti (ma non di tutti); e di contributo alla garanzia dell’offerta dei prodotti essenziali, specie nei primi tempi del periodo indicato; tempi di carenze strutturali dell’offerta. Si tratta di una importante esperienza di gestione d’impresa per decine e decine di cittadini di ogni ceto o professionalità. In seguito e con molta fatica e con non sempre pacifiche discussioni, si fa strada il processo di unificazione che, con diverse fasi, porta al livello attuale che vede la cooperazione di consumo essere la prima impresa italiana nella distribuzione al dettaglio. Ma a Bologna avviene anche un altro fenomeno. All’inizio degli anni ‘70 viene costituita una società pubblico-privata per lo sviluppo dell’associazionismo fra i dettaglianti privati e lo stimolo alla creazione dei centri commerciali moderni a cura dei dettaglianti stessi, mettendo a disposizione della programmazione di queste aggregazioni le necessarie aree urbanizzate. Ossia come era avvenuto per l’industria e l’artigianato.
Da sottolineare anche iniziative innovative prodotte dagli stesso commercianti. La più importante: il mercato all’ingrosso del giovedì pomeriggio per scarpe e prodotti del comparto, tenuto nel parcheggio di via Ferrarese ai piedi della tangenziale. Iniziativa capace di attrarre dettaglianti e ambulanti anche dalle regioni limitrofe.
Da rilevare che in questo periodo prendono vita sia il Centergross, sia l’Interporto e si comincia a studiare una nuova sistemazione per il mercato ortofrutticolo.
Una considerazione particolare merita il ruolo dell’Ente locale in tutta questa vicenda.
Il decentramento in città con l’istituzione dei quartieri; la scelta della tangenziale che comporta la liberazione della città dal traffico di attraversamento e un flusso agevole per il collegamento delle varie zone della provincia. I Piani regolatori generali dei vari comuni. Essi rappresentano non solo la regolamentazione nell’uso del territorio, ma anche una articolazione equilibrata dello sviluppo degli insediamenti abitativi, produttivi e commerciali senza determinare concentrazioni troppo pesanti, evitando così gravi effetti ambientali, ma anche senza produrre quelle coree che tanti problemi sociali hanno prodotto e ancora producono in tutte le altre città industriali. Senza una simile politica oggi anche Bologna potrebbe lamentare, periferie degradate e luoghi di forte disagio sociale.
Un fattore da sottolineare è costituito da un dato di grande rilievo. Attorno agli anni ‘70, il tasso di occupazione femminile nella nostra provincia era il 72% circa. Un livello con pochi esempi al mondo. Una delle ragioni di un simile livello era determinata e garantita certamente dalla situazione dell’economia, con particolare riferimento ai settori produttivi, ma anche dall’insieme dei servizi sociali che Bologna (provincia compresa) vantava e che era rappresentato in particolare dal sistema dalle strutture per l’infanzia promosso da Adriana Lodi.
Un ulteriore aspetto che merita menzione è costituito dal sistema degli uffici di collocamento allora gestiti dai sindacati ed espropriati, manu militari, alla fine del ‘50 dal governo DC. Il collocamento a quel tempo funzionava perfettamente. Il lavoro era suddiviso equamente fra la massa dei braccianti e degli edili, allora ancora molto numerosi (gli industriali si rivolgevano quasi sempre ai preti e ai marescialli dei carabinieri), e ciò consentiva anche di garantire il totale pagamento degli oneri sociali. Oggi si parla di istituire i centri per l’impiego dopo la fase del collocamento burocratico statale e quello liberalizzato con l’intermediazione di agenzie private. Non è chiaro cosa si intende inventare. Forse basterebbe guardarsi indietro per trovare una soluzione valida, senza scomodare esperti (?) americani.
Ovviamente non si può ritornare indietro, ma ogni tanto non sarebbe male valutare se nell’esperienza passata non ci sia qualcosa di buono sia nel metodo, sia nei contenuti.
Di Gabriele Sarti