Attualità

Cosa succede?

By 20 Dicembre 2018 No Comments

È possibile una analisi, un po’ diversa dal solito, su ciò che sta succedendo in tantissima parte del mondo? Vorremmo provarci utilizzando quel metodo che troppi hanno pensato di gettare nella spazzatura della storia, ma che oggi sembra l’unico a consentire risposte sufficientemente esaustive. Si tratta ovviamente dell’analisi marxista (mi si perdoni la presunzione) nella sua versione leninista. Qualcuno si stupirà per una simile riesumazione. Ma con un poco di pazienza ci si potrà anche rendere conto, seguendoci, che qualche volta per risolvere un problema occorre uscire dagli schemi usati e battere strade che sembrano vecchie, ma che invece sono assolutamente attuali.

Cominciamo dalla sommità dl problema: la globalizzazione.

Questo processo voluto ed attuato dalle multinazionali industriali e dei servizi oltre che dalla finanza mondiale, è la scelta che la grande borghesia dei paesi industrializzati (di Usa, Giappone, Inghilterra, Germania in primis), ha elaborato ed attuato per conseguire i suoi interessi materiali e di potere. Con questa scelta i promotori sono riusciti a sterilizzare in gran parte le capacità di reazione del principale avversario di classe (si può usare ancora questo termine?). Ciò con diversi strumenti. Il primo e più importante: il passaggio, nel processo produttivo industriale, dal sistema tayloristico a quello just-in-time. Questa impostazione ha disgregato i precedenti forti nuclei di classe operaia, disarticolando i punti della loro aggregazione (ossia le grandi fabbriche) in una molteplicità di luoghi produttivi; ha consentito di esternalizzare una parte del processo produttivo coinvolgendo una pletora di piccole e medie imprese dell’indotto e della componentistica e soprattutto dei servizi, il cui ruolo subordinato ha retto abbastanza bene fino a che la fase del ciclo economico era in sviluppo; quando sono iniziati i problemi questo strato di economia (che corrisponde alla piccola e media borghesia) è stato il primo, assieme a tutta la massa dei lavoratori, a subirne le conseguenze.

Naturalmente anche la funzione, il ruolo e il peso dei sindacati è stato profondamente minato dai processi sopra richiamati e la loro capacità di incidere sulle strategie delle controparti fortemente condizionata. Da notare anche l’effetto di modificazione della stratificazione delle società dei vari paesi dove, a fronte della caduta verticale della incidenza economica e sociale della agricoltura e della massa dei relativi addetti, alla stagnazione o più spesso diminuzione degli addetti all’industria, vi è stato uno sviluppo quantitativo esponenziale delle componenti terziarie, che però sono ovunque costituite da un mix di situazioni, di ruoli e condizioni (e relativi soggetti) che è quasi impossibile ricondurre a concreti ed organici interessi generali, ma anche a concrete configurazioni politiche, sindacali, professionali e sociali. Un mix caotico, non privo anche di elementi non secondari di parassitismo, che determina pericolose conseguenza politiche, come vedremo più avanti.

Un ulteriore effetto di questo processo è dato dal fatto che è stato possibile trasferire una buona parte delle contraddizioni, che in precedenza erano tutte in capo alla grande industria, alle sottostanti componenti economiche (ossia le PMI satelliti e dell’indotto) senza che le stesse potessero utilizzare le risorse finanziarie necessarie per uscire dalle difficoltà e senza che potessero disporre del sufficiente potere politico per ottenere adeguati ammortizzatori socio economici o finanziari per i propri problemi.

Il risultato più evidente di questi fenomeni è la forte polarizzazione della ricchezza determinatasi in questi ultimi venti/venticinque anni, ciò contestualmente al forte peggioramento delle condizioni economico sociali di importanti aree mondiali (specie dell’Africa), nelle quali instabilità politica, guerre, corruzione prodotta dall’esigenza di saccheggiare le risorse del territorio da parte dei protagonisti del neocolonialismo, producono quei movimenti di popolazioni che stanno mettendo a dura prova l’assetto mondiale. Questi processi comportano un ulteriore elemento contraddittorio: una massa di risorse finanziarie, una decina di volte superiore al PIL mondiale, sono di fatto inutilizzate; mentre una massa di disoccupati mondiali, di sotto occupati, di delusi completi e di miseria totale, potrebbero invece trovare soluzione ai loro problemi se le risorse finanziarie fossero utilizzare correttamente e specie se fossero in altre mani.

Ma perché succede tutto questo? Lo sviluppo del capitalismo monopolistico ha prodotto una sostanziale modifica nel modo di concepire l’economia globale da parte dei grandi gruppi industriali, finanziari e dei servizi. In un contesto di oligopolio, la concorrenza, se non fosse frenata, determinerebbe il monopolio totale, ma anche le conseguenti reazioni sociali e politiche. Già in passato si sono avute leggi anti trust; oltre al fatto che per ammortizzare le reazioni sociali contro una situazione di tale insostenibilità economica sarebbe necessario, come avvenuto nel secolo scorso, uscire dai regimi democratici e dare corso ovunque a regimi totalitari il cui sbocco nel recente passato sono state, come si sa, due guerre mondiali di devastante effetto generale.

Frenare la concorrenza significa attuare accordi di vario genere fra i grandi gruppi; significa una politica dei prezzi che si muove sì verso l’aumento sistematico, ma con precisi paletti per i modi e i tempi; tali, in sostanza, da garantire sempre e comunque il massimo risultato; ossia il massimo profitto, senza che vi siano guerre concorrenziali troppo incisive. Ciò significa che nuovi investimenti, innovazione, manovra dei prezzi, nei settori operativi dei grandi gruppi, debbono essere attuati con molta prudenza in quanto abbasserebbero il tasso di profitto. Questa è una delle cause dello spreco (ossia non utilizzo) di risorse materiali e umane che si sta manifestando a livello globale.

Una ulteriore considerazione: Lo sviluppo tecnologico comporta investimenti in ricerca; una ricerca che ha sempre tempi lunghi o medio lunghi e i cui risultati non sono sempre sicuri e garantiti. Ma comporta anche che, per determinare un nuovo posto di lavoro, occorre investire risorse sempre più elevate; per preparare le persone, per investimenti in apparati e tecnologia, per compensare le nuove forze lavoro la cui professionalità deve essere necessariamente alta e perciò alti i compensi. Queste sono alcune delle ragioni per cui lo sviluppo tecnologico è primariamente rivolto a risparmiare lavoro operaio; ma con ciò si innesta una nuova contraddizione in quanto diminuendo l’occupazione, tende a diminuire il tasso medio di profitto, per ripristinare il quale si dovrebbe operare sui prezzi, ma con ciò determinando una ulteriore diminuzione della domanda di beni e servizi, oppure tagliare i livelli di welfare e in questo caso si rischia una recessione generale dell’economia. Le ultime crisi sono indicative a questo riguardo.

Un ulteriore effetto di un simile processo è dato dal fatto che aumenta la necessità di risorse per il welfare in quanto automaticamente aumenta la domanda di aiuto sociale verso gli Stati, ma le risorse necessarie per eventuali interventi si debbono derivare dalla politica fiscale, che, se è fatta pesare sulle imprese, diminuisce la competitività, taglia i profitti, determina la fuga e la esternalizzazione; se fatta pesare sulle masse, tosando redditi da lavoro e pensioni, oltre a produrre recessione, genererà reazioni sociali il cui sbocco è sempre problematico. Si avrebbe, infatti, l’effetto economico di abbassare quella domanda interna che invece si vorrebbe potenziare con gli interventi di welfare; che se davvero funzionassero avrebbero solo un effetto perequativo, ma non di sviluppo.

Si torna quindi al problema di fondo: occorre recuperare l’uso sociale (attraverso la politica fiscale ed economica degli Stati) della massa di risorse finanziarie inutilizzate.

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