Attualità

La dimensione politica della lotta femminile de La Perla. Dialogo con Stefania Pisani, Filctem-Cgil

By 19 Ottobre 2023 No Comments

di Beatrice Mauriello
La lotta delle lavoratrici de La Perla è una storia che merita di essere raccontata non solo come gesto di solidarietà, per dare uno spazio e una voce a queste donne coraggiose e straordinarie impegnate nella difesa del loro posto di lavoro, ma soprattutto perché intreccia diverse tematiche e fa emergere alcuni dei problemi fondamentali che il mondo del lavoro si trova ad affrontare nel nostro Paese. È la storia di un sistema industriale capitalistico che, ormai asservito a folli logiche finanziarie, si mangia le nostre aziende, distruggendo quel patrimonio di qualità radicato nel nostro Paese; non più creazione di lavoro, ma rimozione di questo, desertificando e depauperando il nostro sistema industriale. È anche l’emblema di un territorio di eccellenza, quello bolognese, che non riesce a reagire alla crescente deindustrializzazione e rischia di smarrire tutto quel sistema di relazioni che ha fatto prosperare e crescere la nostra terra. Ma soprattutto questa è una storia di donne, di una lotta declinata al femminile che riesce a trovare modi, pratiche e codici nuovi per resistere. È una storia che dimostra come il nostro Paese e il mondo del lavoro abbiano bisogno delle donne e del loro modo creativo, innovativo e geniale, di portare nuova linfa e condurre la lotta in maniera inedita.

Stefania Pisani, segretaria generale Filctem-Cgil, durante l’intervista è appassionata, arrabbiata e commossa, parlando delle donne dell’azienda “La Perla”. La sua rabbia e la commozione contagiano spesso anche me perché queste lavoratrici non alzano la voce solo per sé stesse, ma sono emblema di una nuova resistenza dai contorni ironici e creativi, una voce che deve diventare esempio per le lavoratrici, per le nuove generazioni e per tutte le lotte analoghe.

Partiamo dal principio: cosa sta succedendo e cosa è successo all’azienda La Perla?

A differenza delle crisi precedenti, nate da atti drammatici, questa volta siamo state noi a lanciare l’allarme e alzare la voce, raccontando quello che stava succedendo dentro l’azienda. Tutto comincia ad agosto 2022 quando veniamo convocate per attivare i contratti di solidarietà con la motivazione del rallentamento della produzione: tale scelta risultò anomala perché, dopo la crisi dovuta al Covid, per cui il settore del tessile e dell’abbigliamento è stato inevitabilmente fermo, il settore del lusso aveva riacquisito in pochissimo tempo i dati precedenti alla crisi Covid. La forbice allucinante tra i pochi che guadagnano tanto e i tanti che guadagnano poco fa sì che il settore del lusso resista bene ai periodi di crisi, abbigliamento compreso. La prima domanda che poniamo all’azienda, quindi, è come sia possibile che un prodotto del genere, che si muove nel target del lusso abbia problemi di carattere produttivo. La solidarietà inizialmente è di due giorni a settimana. Quando l’azienda ci convoca per la proroga dei contratti ci opponiamo perché non vediamo alcuna strategia produttiva. In quella sede proponiamo un giorno solo di solidarietà a settimana e l’inserimento di percorsi di formazione verso la transizione ecologica del settore. La nostra idea è quella di certificare le professionalità nella direzione ecologica, essendo il tessile già un settore avvantaggiato da questo punto di vista, così da ammortizzare questa fase di stallo costruendo per il futuro. Nonostante ciò, ci accorgiamo che la produzione in azienda stava in realtà rallentando e che questa proroga non sia un voler prendere tempo in modo proficuo ma un voler temporeggiare e perdere tempo: chiediamo quindi un incontro in Regione, per coinvolgere immediatamente le istituzioni. Il 4 Maggio 2023, al tavolo della Regione, si collega Lars Windhorst, il proprietario del fondo Tennor (che ha acquistato l’azienda La Perla nel 2018) e conclude dicendo che avrebbe stanziato l’importo di 60/70 milioni di euro, finalizzati al rilancio del gruppo La Perla, a partire dal sito bolognese, il cuore dell’azienda, dove si trovano sia la parte di progettazione, di sviluppo del prodotto e la produzione dei prodotti di maggior qualità, sia i reparti trasversali come il marketing, la fotografia e l’e-commerce. Questi soldi sarebbero dovuti arrivare in due tranche, una entro maggio e l’altra entro la seconda settimana di giugno. Dopo la prima settimana di giugno nemmeno una parte di questi 60/70 milioni era arrivata e quindi convochiamo un nuovo tavolo in Regione per chiedere che gli accordi e gli impegni presi vengano mantenuti. Il signor Lars Windhorst non risponde neanche alla chiamata. Nel frattempo però scopriamo che, mentre noi stavamo aspettando i soldi, egli per tramite del fondo Tennor aveva acquistato una villa a Beverly Hills da 49 milioni di dollari.

A cosa è dovuto quindi il mancato stanziamento dei fondi?

Quello che denunciamo è un’anomalia che va contro ogni logica imprenditoriale. Come sindacalisti spesso ci troviamo in disaccordo con la controparte, magari non si condivide la strategia imprenditoriale e si cerca per questo di opporsi, ma almeno se ne può comprendere la ratio e il senso economico. Ma non è questo il caso: qui non c’è una logica imprenditoriale. Quando il bilancio è terminato in passivo, inevitabilmente, perché non si è avviata la produzione e quindi l’azienda non si può autofinanziare e deve aspettare i soldi dall’imprenditore, il proprietario non ha avuto alcuna difficoltà a pagare milioni di passivo di perdita senza doversi affidare al sistema bancario: questo significa che i soldi ci sono. E per quale motivo questi soldi non vengono messi all’inizio del processo produttivo? Perché gli stessi soldi, né un euro in più né uno in meno, che vengono usati per coprire il passivo del bilancio non vengono messi per sostenere un progetto, consentendo all’azienda di autofinanziarsi? Cosa c’è dietro? Non si capisce quale è la logica che sottostà a un meccanismo del genere. Questo è il problema. I passivi di bilancio vengono pagati ma la produzione è ferma e i negozi chiudono perché non vengono pagate le locazioni, pur producendo questi fatturati allucinanti. Da quando La Perla è stata acquistata nel 2018 è rimasta una minima parte dei negozi sia a livello mondiale che a livello italiano. Ridurre la rete vendita nel lusso è folle, perché il cliente disposto a spendere quasi 500 euro per un prodotto di lingerie è lo stesso che una volta in negozio ne acquista tre di prodotti invece di uno solo. Tutto il turismo estero che veniva in Italia andava nei negozi de La Perla perché voleva acquistare i prodotti in Italia, perché c’era la valenza della manifattura italiana. Adesso i turisti non accedono più perché non ci sono più i negozi: in via Monte Napoleone a Milano non ci va più nessuno perché non c’è più nulla. Le colleghe dei negozi lamentano che di questo passo a ottobre non sanno cosa vendere e non sanno più come tener buona la clientela che richiede il prodotto. Tant’è che non appena vengono immessi dei prodotti nel mercato, principalmente tramite l’e-commerce, la merce viene venduta immediatamente e solo una minima parte degli ordini viene evasa perché non ci sono abbastanza prodotti per tutta la richiesta che arriva. Quindi perché questa crisi? C’è un prodotto di qualità, un brand rinomato in tutto il mondo, una quota di mercato disponibile all’acquisto, esistono ancora le professionalità che possono realizzare quel prodotto ma manca l’imprenditore. Questo è un fatto assurdo. La cosa più sconvolgente è che non emerga nella discussione pubblica come questa sia un’operazione finanziaria che sta mangiando la produzione, una produzione di qualità. Questo è un tema che va oltre questa specifica situazione, è una questione di carattere generale dove La Perla può essere presa come l’emblema di un modo di fare imprenditoria pericolosamente marcio.

Che caratteristiche e che valore aggiunto assume la lotta in un’azienda come la vostra, composta al 90% di donne? Inoltre, voi avete messo in atto una serie di pratiche di lotta creative, come la scrittura di un libro di canzoni o la prassi di far suonare il clacson in Via Mattei, davanti alla fabbrica, come segno di solidarietà: secondo te da cosa nasce questa esigenza di trovare nuove forme di lotta?

Questa non è la battaglia machista e muscolare dell’operaio anni ‘70 metalmeccanico. Questa è una lotta di donne che si muovono nell’ambito della manifattura artistica, abituate ad avere a che fare con il Bello, l’elemento emotivo per eccellenza; la lotta esprime quello che sono. È una battaglia rumorosa, sonora e artistica, è ironica e testarda: è donna! Ed è importante che questa caratteristica, questa dimensione al femminile, questo modo alternativo, tipico delle donne che lavorano e che si mettono insieme, emerga. Perché le donne portano innovazione anche nella lotta. Per me è commovente sentire delle donne che stanno lottando non solo per mantenere il loro lavoro, ma che denunciano il fatto che non possano trasferire alle nuove generazioni la loro arte. Queste donne finché possono resistono, con capacità di inventiva e di adattamento straordinarie, sono energiche e brillanti. Per esempio, l’azienda ha smesso di mandare i ferretti per i reggiseni: loro si sono inventate dei reggiseni senza ferretti e li hanno messi in produzione. La capacità femminile di arrangiarsi e di reinventarsi nella necessità e nel bisogno è commovente e deve essere un esempio straordinario di resistenza. È come se le donne, avendo occupato uno spazio piccolo della storia per millenni, in quello spazio minuscolo a loro riservato, avessero imparato ad arrangiarsi a creare, con poco, meraviglie. Ed è importante che emerga questa splendida dimensione politica della lotta al femminile: concreta, non filosofica, non da slogan o da proclami elettorali, ma vera, che risponde a dei bisogni: quelli dell’oggi ma anche quelli di domani. Ecco, riuscire a fare emergere questa specificità, a mio avviso, aiuterebbe anche altre lotte analoghe che vanno anche oltre il singolo luogo di lavoro. Noi abbiamo bisogno anche di una evoluzione di carattere culturale. Mai come oggi queste donne ce lo stanno insegnando ed è la linfa vitale di cui hanno bisogno sia il Paese che la lotta sindacale. Questa storia deve avere la dignità che si merita, non va rinchiusa in un cerchio ristretto perché ci sono tematiche che vanno abbondantemente fuori dai confini dell’azienda: finanza che si mangia la produzione, l’arroganza, il disprezzo di questa nei confronti delle istituzioni, dei lavoratori, delle rappresentanze democratiche che i lavoratori si scelgono e addirittura il disprezzo stesso della ragione per cui l’azienda è stata comprata. Siamo al paradosso. È una lotta che rischia di lasciare a casa 330 donne in un paese in cui l’occupazione femminile è bassa da sempre, in cui i dati parlano di lavoro povero, spesso circoscritto alla sfera giovanile e femminile. Queste sono delle lavoratrici che hanno una professionalità elevata, fatta da decenni di esperienza e secoli di conoscenze pregresse, con una capacità progettuale invidiabile. Se la situazione incerta a La Perla permane, si rischia di perdere tutte queste professionalità; le donne che hanno la possibilità di andare in pensione terranno duro e poi se ne andranno e coloro che invece hanno bisogno di una entrata sicura, perché nonostante l’amore e la passione per il proprio lavoro non si può vivere nell’incertezza del futuro, soprattutto se alle spalle c’è una famiglia da mantenere, cambieranno occupazione. Bisogna agire adesso per salvare questo patrimonio collettivo che sono le competenze di queste artigiane, di queste artiste, per poterle trasmettere alle nuove generazioni. Si parla tanto del made in Italy e del preservare le competenze italiane, ma se lasciamo che queste donne se ne vadano portando con sé la propria arte, che cosa resta a questo territorio e al nostro futuro industriale? Questo è un patrimonio che va oltre via Mattei, è un patrimonio dell’Italia intera. Le conoscenze che queste lavoratrici hanno andrebbero trasferite alle nuove generazioni, le quali sui lavori manuali, artistici, hanno degli interessi importanti ma non trovano valvole di sfogo e sbocchi lavorativi. Questa azienda dovrebbe diventare una scuola del sapere, sapere che è nelle mani di queste donne e bisogna fare qualunque cosa per tenercelo stretto. Invece non c’è alcuna visione di questo tipo. Ecco perché ritengo che questa battaglia non sia una battaglia che si circoscrive in via Mattei ma sia una battaglia nazionale.

Proprio in virtù dell’importanza che questa azienda assume per il territorio, avete percepito solidarietà da parte degli enti e delle istituzioni, come Regione e Città metropolitana?

Le istituzioni sono state da subito molto attive e presenti, a partire dalla Regione con l’assessore Colla che ha dimostrato in tutte le vicende un’attenzione grandissima a questa azienda perché ha capito il suo valore. Anche la Città metropolitana ci ha sostenuto, non sono mai mancati ai tavoli e hanno sempre dato un contributo di vicinanza; anche perché questa azienda è Bologna. Le ragazze hanno avuto l’idea, e l’hanno realizzata in due giorni, di fare uno stendardo del Comune di Bologna con scritto “La Perla è Bologna”: è un messaggio politico fortissimo che collega l’azienda a questo territorio. Inoltre, vuol dire che le lavoratrici sentono le istituzioni molto vicine perché altrimenti l’idea di fare una cosa del genere non sarebbe venuta.
Visto anche l’esempio della Marelli, cosa sta succedono in un territorio come quello bolognese che invece è sempre stato terra d’eccellenza e che anche durante e dopo la crisi si era difeso bene? Cosa si sta rompendo?
Questo territorio sta rischiando di comprimere in maniera eccessiva tutto quello che è il comparto produttivo e manifatturiero. Ciò è grave, perché il comparto manifatturiero è anche quello che normalmente ha delle condizioni di stabilità e di reddito migliori rispetto al settore dei servizi. Una trasformazione che vede, diciamolo in termini semplicistici, la sostituzione del mondo manifatturiero con quello dei servizi rischia di impoverire il territorio perché i servizi tendono a essere instabili, non hanno una contrattazione storica consolidata. Questa trasformazione, se non è adeguatamente sostenuta, rischia di depauperare nei fatti la capacità di reddito del territorio ed è il rischio che stiamo correndo. Ci sono delle tematiche comuni tra i due esempi citati, La Perla e la Marelli. In entrambi i casi vi sono dei giochi finanziari che prevalgono rispetto alle prospettive produttive. Siamo in una fase di profondo cambiamento: la transizione ecologica cambierà completamente il tessuto produttivo. Se in questa transizione i fili li tengono i finanzieri non vi sarà mai una logica di sviluppo del territorio poiché non vi è interesse nel crearla. Bisogna che la classe politica e la classe imprenditoriale – imprenditoriale, non finanziaria – progettino una logica di accompagnamento di questo processo; altrimenti basta che un soggetto decida che è molto più conveniente produrre nel posto A piuttosto che nel posto B e nell’arco di pochi mesi 500 famiglie del territorio non avranno di che vivere. Bologna è un centro di innovazione, c’è un tecnopolo, una università conosciuta in tutto il mondo, c’è un tessuto produttivo che si è costruito sulle relazioni industriali e che ha fatto sì che questo territorio avesse una strutturazione normativa ed economica all’avanguardia, diventando un modello in fatto di relazioni industriali. Tutto questo rischia di scomparire se lo lasciamo in mano alla finanza o alle logiche finanziarie. La produzione, la crescita economica, dovrebbero essere insieme in una visione comune che per ora non c’è. Il rischio è di lasciare tutto in mano alla cosiddetta “economia”. Ma il libero mercato non ha una visione di insieme dello sviluppo del territorio, soprattutto se la lasci in mano a dei soggetti che non hanno logica imprenditoriale o che fanno delle speculazioni finanziarie. Bologna da città progressista rischia di diventare la città di chi vive di rendita, perché di lavoro si rischia di non poter più vivere considerando anche i costi del territorio.

Da una parte spesso c’è un’incapacità e una non volontà politica di fronteggiare il sistema economico. Però, ad esempio, qui abbiamo la Regione e la Città metropolitana che si sono messi a disposizione della causa delle lavoratrici e comunque, nonostante ciò, troviamo l’arroganza del padrone che continua a fregarsene. Secondo te, anche quando c’è la volontà, ci sono poi le forze in campo per poterla fronteggiare? Ci sono gli strumenti?

I problemi sono complessi. Non c’è un attore che ha l’elemento salvifico in mano e può risolvere questa complessità. Vi è la necessità di attori che riescano a ragionare in modo corale verso una nuova forma di sviluppo. Bisogna mettere insieme i pezzi, sono tutti fondamentali. È fondamentale la strategia e la politica industriale, articolata a livello nazionale, regionale e territoriale. È importante avere una classe imprenditoriale che non si faccia affascinare solo dalla finanza ma che abbia una visione di responsabilità sociale di impresa, come direbbe la nostra Costituzione, e che abbia la volontà di tenere all’interno le nostre eccellenze e fare in modo che i nostri giovani possano avere delle reali prospettive nel nostro territorio. Servono anche delle rappresentanze dei lavoratori che siano capaci di accompagnare questo travaso di competenze e di innovazione, di vecchie competenze e di nuove professionalità. O si prova a mettere insieme, e questa è stata la forza della Bologna progressista che abbiamo nella nostra memoria, queste tre dimensioni oppure pensare che solo il pubblico o solo il sindacato o solo il singolo imprenditore possano risolvere un problema di tale complessità territoriale sarebbe ingenuo.