Cultura

Pasta nera e I treni della felicità: genesi di un documentario e di un libro

By 27 Novembre 2018 No Comments

di Alessandro Piva

Anni fa stavo lavorando, tra Biblioteca Nazionale Centrale e centri agricoli del Tavoliere, su un tema che mi stava a cuore: le rivolte bracciantili del secondo dopoguerra nelle Puglie. Una delle persone intervistate era Severino Cannelonga, figlio di Carmine, un noto bracciante sindacalista coinvolto nella famosa rivolta del 23 marzo 1950 a San Severo. Alla conclusione dell’intervista, Severino mi disse che avrei dovuto ascoltare la sua esperienza da bambino. «So che non c’entra direttamente con la tua ricerca, ma voglio comunque che ascolti la mia storia». Per raccontare bisogna pur sempre alimentarsi d’ascolto e dunque mi disposi di buon animo ad apprendere la storia di Severino. Insieme a me il ricercatore Giovanni Rinaldi, appassionato studioso della memoria orale dei braccianti, che aveva accettato la proposta di accompagnarmi nella ricostruzione di quel periodo di rivolte nel Tavoliere.

Severino iniziò il suo racconto: «Era un martedì, il giorno finale della festa della Madonna del Soccorso. Io, le mie sorelle e tanti altri bambini eravamo qui alla stazione ad aspettare sul binario…» Quell’uomo mi raccontò la storia del primo viaggio in treno della sua vita. La sua famiglia era in difficoltà per le dure ripercussioni delle lotte politiche – in carcere insieme a tanti compagni accusati di insurrezione armata contro i poteri dello Stato – e alcune famiglie di Ancona si erano offerte di ospitare i bambini di San Severo. I suoi occhi tornarono via via giovanissimi: il cambio del paesaggio, la scoperta del mare, i diversi sapori della tavola, l’importanza che veniva data allo studio: due culture che si confrontavano. Tutti elementi di fortissima potenza immaginifica che avrebbero potuto essere spunto per un film di finzione. Ma insieme a Rinaldi decidemmo di intraprendere due percorsi paralleli che documentassero quel fenomeno stranamente misconosciuto della nostra Storia. Nascono così Pasta nera, il mio film documentario, e I treni della felicità, il libro di Giovanni Rinaldi, due racconti che partono dallo stessa suggestione per restituire entrambi questa storia di solidarietà quasi dimenticata.

Così iniziammo a rintracciare da un capo all’altro del nostro Paese i testimoni diretti di questa iniziativa. Scoprimmo che non solo molti di quei bambini erano ancora in grado di ricordare lucidamente quell’esperienza, ma anche che alcune delle allora giovanissime organizzatrici erano ancora pronte a raccontarci, con una ricchezza di dettagli sorprendente, l’ambiziosa fatica di quella macchina organizzativa che permise a più di 100.000 bambini di salire su quei treni.

Ci sono voluti degli anni – la scarsezza delle risorse a disposizione ha dettato il passo – per raccogliere tutte le interviste, tasselli di un racconto condiviso che fosse il più esaustivo possibile. Ogni bambino, ogni testimone aggiungeva qualcosa. Quando eravamo in grado di organizzare un viaggio riconoscevamo, al Sud come al Nord, quello stesso identico valore dell’ospitalità che stavamo documentando: tutti ci hanno aperto le loro case, preparato i cappelletti, messo in tavola gli affettati e la pasta fritta.

Da qui scaturisce la scelta di ambientare il racconto degli intervistati cercando di restituire qualcosa del loro vissuto; così Severino è alla stazione, proprio lì da dov’era partito, Americo è nel salone di barbiere appena ceduto per andarsene in pensione, Marisa nella vetusta officina di famiglia e Derna nella casa di riposo, mentre Miriam Mafai è tra i suoi libri e la Viviani si racconta tra i souvenir delle sue battaglie in Parlamento e di tutta una vita.

E le foto, quelle pochissime fotografie tenute sempre in mano nel timore che andassero perse. Ho usato le foto dei protagonisti per certificare questo cortocircuito emozionale e visivo tra infanzia e anzianità che mi aveva colpito fin dall’inizio. La ricerca d’archivio condotta con appassionata dedizione da Vania Cauzillo ha setacciato da una parte gli archivi di Napoli e Roma, dove i fotografi non si erano lasciati sfuggire la partenza in stazione di centinaia di bambini, e dall’altra le sedi locali delle Udi emiliane che conservano orgogliosamente molti scatti di quegli arrivi, scatti che catturano occhi ora smarriti nelle foto di gruppo sulle banchine della stazione, ora increduli e sorridenti davanti alle tazze di cioccolata e agli abbracci talvolta troppo vigorosi dei loro ospiti.

Le nostre interviste andavano innestate sulle immagini di repertorio dell’epoca, così scrivemmo a Cinecittà Luce, illustrando il progetto e chiedendo l’uso del materiale d’archivio. La loro risposta entusiastica andò ben oltre le mie aspettative. Beppe Attene, all’epoca consulente ai documentari per l’Ente, ha messo così a disposizione la sua competenza e la sincera passione storiografica. Il materiale d’archivio non ha solo punteggiato i momenti salienti del racconto ma si è innervato nella struttura narrativa. Ciò che non è racconto dell’iniziativa specifica è ricostruzione dell’epoca: questi i due piani narrativi e visivi che si intrecciano. I bombardamenti e le città sventrate, la faticosa opera di ricostruzione, la fame, il ruolo delle organizzazioni femminili e la condizione infantile nelle grandi città. È proprio dall’avvicendarsi tra lo speaker dei cinegiornali e la voce dei protagonisti che è derivata la scelta di non ricorrere alla voce fuori campo. Il compositore Riccardo Giagni ha creato un mondo musicale mai troppo invasivo, rispettoso delle emozioni di questi bimbi anziani. A impreziosire la colonna sonora, Giagni ha sapientemente gestito un coro di voci bianche, che oltre a scandire con le filastrocche alcune sequenze, punteggia la visione con certi curiosi bisbiglii di bambini, che ondeggiano fascinosi tra le immagini di repertorio. Abbiamo deciso infine di fare ampio ricorso al fondo di film di famiglia dell’archivio Home Movies, per una narrazione libera come l’infanzia: una citazione del gioco e della spensieratezza dei bambini, un’Italia che girata la pagina bellica si affacciava al benessere, rievocata con la suggestione dei filmini 8mm.

Molte delle persone che abbiamo intervistato non ci sono più, di loro mi rimarrà impressa l’energia e la gioia con le quali hanno ricordato questa storia un po’ ricoperta di polvere. A distanza di anni, ogni volta che penso a questa storia una commozione allegra e vitale mi trascina via. La sensazione è quella, nel mio piccolo, di aver fatto qualcosa di utile al mio Paese, restituendo al momento giusto una memoria civile e umana intimamente custodita dalle donne, militanti e mamme che hanno raddrizzato il destino di tanti bambini svantaggiati. «Questo è un Paese che ogni tanto ha bisogno di ricordarsi che ha fatto delle cose bellissime», ci ricorda nel finale del film Luciana Viviani. Oggi più che mai.

 

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